Trentaseiesimo titolo di narrativa del suo infinito romanzo fatto di romanzi, quest'ultimo, che si dipana nell'ormai noto stile fatto di monologhi e memoria alternati senza soluzione di continuità, si muove intorno a un personaggio storico, Júlio Fogaça (1907-1980), quantunque il suo nome non venga mai pronunciato, disegnandone la biografia grazie a un affresco corale di voci di personaggi ognuno dei quali protagonista a turno dei singoli capitoli. Membro della segreteria del Partito comunista portoghese, Fogaça viene deportato per due volte nella colonia penale di Tarrafal, a Capo Verde, e imprigionato anche sul suolo patrio nelle famigerate carceri della polizia politica, dove è torturato. Ciononostante, l'attivista non cede e non tradisce i compagni di lotta, ma viene ugualmente espulso dal partito. Secondo le motivazioni burocratiche perché non ligio alla linea ortodossa imposta dal comitato centrale, molto più probabilmente a causa delle sue origini alto-borghesi, giudicate incompatibili con il profilo del militante comunista e, soprattutto, per via della sua omosessualità. Non alla propria, ma alle plurime voci di chi l'ha conosciuto è affidato il compito di dipanare un'indagine intorno alla vera identità del protagonista e, insieme, di raccontare il colonialismo oltremarino, la dissoluzione dell'impero, la lenta corrosione della presenza lusitana in Africa, il lato più oscuro della dittatura. Il "dizionario dei fiori" scritto in una lingua d'antan, che compare qua e là fra le pagine, riveste un valore allegorico ponendosi come immagine della vita con le sue biforcazioni, con i presenti possibili che si sovrappongono - mediati dal rimpianto e dalla nostalgia - all'unico presente reale, che è quello vissuto.
La storia si sviluppa nel breve lasso di tempo di un weekend, che la protagonista e principale voce narrante trascorre nella casa delle vacanze della sua infanzia in procinto di essere ceduta ai nuovi proprietari. L’addio alla casa si dilata in una sequenza caotica di aneddoti e di ricordi relativi al passato drammatico della sua famiglia: c’è il fratello sordomuto nato da una relazione extraconiugale della madre che il padre ha accettato annegando la delusione nell’alcolismo, un altro fratello che si suicida traumatizzato al ritorno dall’Angola. E ci sono le vicende passate e presenti della protagonista: l’adorata amica d’infanzia che ritrova nella veste di una scostante dottoressa quando viene operata di un tumore al seno, il matrimonio infelice con un uomo mediocre, l’insoddisfacente relazione lesbica con una collega e il desiderio di farla finita come il fratello, gettandosi dalla scogliera. Intorno, tutta una galleria umanissima di personaggi secondari e, come sempre nei romanzi di Lobo Antunes, oggetti e animali che assumono temporanee valenze antropomorfe per farsi a loro volta partecipi delle vicende umane.
"Arcipelago dell'insonnia" narra la storia di tre generazioni di una facoltosa famiglia del Portogallo rurale: dall'ascesa, grazie alla caparbietà e al dispotismo del capostipite, fino all'ineluttabile crollo. Si avvicendano e si mescolano in modo frammentario le voci dei protagonisti, come anche i piani narrativi del presente e del ricordo, senza rispettare la sequenzialità temporale o semantica, né instaurare soluzioni di continuità fra realtà e irrealtà. Al centro della narrazione c'è quel che rimane della casa colonica, intrisa di memorie; le intemperanze del patriarca che abusa delle serve e maltratta i contadini con l'appoggio del fattore, amico e fedele braccio destro; ci sono le vicende di due fratelli, di cui uno solo legittimo, trattati in modo impari dal padre, e c'è la voce dolente di un nipote affetto da autismo che paradossalmente, sebbene in modo onirico e visionario, dall'ospizio in cui è recluso, è l'unico a conservare piena memoria del passato familiare e a svelare i nessi segreti di tante storie.