Felicità è una parola di cristallo, la più soggettiva del vocabolario. Cambia a seconda dei valori, delle condizioni di salute, delle idee, della fede, dell'età, del rapporto con il tempo e con la morte. Muta svariate volte nel corso della vita poiché a cambiare siamo prima di tutto noi con il nostro orizzonte di desiderio. Definirla, quindi, non è impresa da poco, ma può rivelarsi un'avventura avvincente. Il suo significato, infatti, apre mille strade e mille orizzonti. Per me è uno stato di estasi, per te un momento di inconsapevolezza. Il luogo dove si trasforma di più è proprio la lingua, con i suoi labirinti etimologici perché le parole contengono immagini originarie, miniere di storie e di misteri, che nei sotterranei della nostra mente agiscono e danno forma ai pensieri e alle emozioni di ogni giorno. Marco Balzano varca la soglia della felicità con le chiavi della lingua, o meglio di quattro. Sono quelle in cui la civiltà occidentale affonda le sue radici: il greco e il latino della tradizione classica, l'ebraico di quella giudaico-cristiana e infine l'inglese, lingua universale del nostro tempo. In ognuno di questi idiomi la parola felicità dischiude immagini e significati molto differenti che illuminano valori etici e morali, questioni politiche, atteggiamenti psicologici e, più genericamente, maniere di guardare alla vita e alla morte, al futuro e alla memoria, agli altri e a noi stessi. L'etimologia restituisce alle parole la loro complessità e, così facendo, ci mette in condizione di prenderci cura della lingua: per praticarla liberamente, evitarle il deterioramento a cui la sottopongono i social, la pubblicità o la propaganda, e proiettarla nel tempo. Capire da dove vengono e come sono arrivate a noi le parole ci mostra quanto influiscano sulla nostra vita e come ci plasmino. Al punto da poterci indicare nuovi modi di essere felici.
Nicola ha ventisei anni e fa l'insegnante precario a Milano. È figlio di Riccardo, un emigrante invecchiato troppo presto, e nipote di Leonardo, un contadino analfabeta e senza terra, che un giorno sorprende tutta la famiglia con una decisione importante: bisogna vendere la casa al mare, diventata l'oggetto ingombrante che divide fratelli, genitori e cugini. Cosí, una mattina di prima estate, partono a bordo di una Punto amaranto, nonno padre e nipote, per raggiungere la Puglia, a cui sono legati in maniera diversa. Il viaggio tra i luoghi e le memorie che hanno costruito la famiglia Russo diventa un viaggio iniziatico in cui i rapporti di confronto-scontro tra padri e figli si sciolgono in rapporti fra tre uomini, ognuno con i propri imbarazzi, affetti, difficoltà.
«Se non capisci tua madre, è perché ti ha permesso di diventare una donna diversa da lei». Questa è la storia di chi parte e di chi resta. Di una madre che va a prendersi cura degli altri, dei suoi figli che rimangono a casa ad aspettarla covando ambizioni, rabbie, attese. E un'incontenibile voglia di andarsene lontano. Dopo "Resto qui", Marco Balzano torna con un racconto profondo e tesissimo di destini che ci riguardano da vicino, ma che spesso preferiamo non vedere. Un romanzo che va dritto al cuore, mostrando senza mai giudicare la forza dei legami e le conseguenze delle nostre scelte. Daniela ha un marito sfaccendato, due figli adolescenti e un lavoro sempre più precario. Una notte fugge di casa come una ladra, alla ricerca di qualcosa che possa raddrizzare l'esistenza delle persone che ama - e magari anche la sua. L'unica maniera è lasciare la Romania per raggiungere l'Italia, un posto pieno di promesse dove i sogni sembrano più vicini. Si trasferisce così a Milano a fare di volta in volta la badante, la baby-sitter, l'infermiera. Dovrebbe restare via poco tempo, solo per racimolare un po' di soldi, invece pian piano la sua vita si sdoppia e i ritorni si fanno sempre più rari. Quando le accade di rimettere piede nella sua vecchia casa di campagna, si rende conto che i figli sono ostili, il marito ancora più distante. E le occhiate ricevute ogni volta che riparte diventano ben presto cicatrici. Un giorno la raggiunge a Milano una telefonata, quella che nessuno vorrebbe mai ricevere: suo figlio Manuel ha avuto un incidente. Tornata in Romania, Daniela siederà accanto al ragazzo addormentato trascorrendo ostinatamente i suoi giorni a raccontargli di quando erano lontani, nella speranza che lui si svegli. Con una domanda sempre in testa: una madre che è stata tanto tempo lontana può ancora dirsi madre? A narrare questa storia sono Manuel, Daniela e Angelica, la figlia più grande. Tre voci per un'unica vicenda: quella di una famiglia esplosa, in cui ciascuno si rende conto che ricomporre il mosaico degli affetti, una volta che le tessere si sono sparpagliate, è la cosa più difficile.
Quando ci raccontano l'etimologia di una parola proviamo spesso una sensazione di meraviglia, perché riconosciamo qualcosa che non sapevamo di sapere, un universo di elementi che era sotto i nostri occhi ma che non avevamo mai notato. Allora come è possibile che l'etimologia, così carica di fascino, non riceva la considerazione che merita? Eppure padroneggiare le parole nella loro storicità e non possederne solamente la scorza ha dei vantaggi. Per esempio, chi acquisisce una forma mentis etimologica sa che attribuire a qualsiasi vocabolo un solo significato è limitativo. Da questo punto di vista l'etimologia è come la poesia, perché sa offrire sempre un'immagine o un gesto che danno tridimensionalità alla parola. Inoltre, quando ne conosciamo l'archeologia, possiamo chiederci se l'uso odierno dei vocaboli conservi ancora qualcosa del significato originale e, nel caso non sia così, indagarne le ragioni. Attraverso dieci appassionanti scavi etimologici, Balzano ci dice non solo che ogni parola ha un corpo da rispettare, ma anche che non è un contenitore da riempire a piacimento. Perché ogni parola ha una sua indipendenza e una sua vita.
Una storia civile e attualissima, che cattura fin dalla prima pagina. Il nuovo grande romanzo del vincitore del Premio Campiello 2015. Marco Balzano ha la sapienza dei grandi narratori: accorda la scrittura al respiro dei suoi personaggi.
Negli anni Cinquanta a spostarsi dal Meridione al Nord in cerca di lavoro non erano solo uomini e donne pronti all'esperienza e alla vita, ma anche bambini a volte più piccoli di dieci anni che mai si erano allontanati da casa. Il fenomeno dell'emigrazione infantile coinvolge migliaia di ragazzini che dicevano addio ai genitori, ai fratelli, e si trasferivano spesso per sempre nelle lontane metropoli. Questo romanzo è la storia di uno di loro, di un piccolo emigrante, Ninetto detto pelleossa, che abbandona la Sicilia e si reca a Milano. Come racconta lui stesso, "non è che un picciriddu piglia e parte in quattro e quattr'otto. Prima mi hanno fatto venire a schifo tutte cose, ho collezionato litigate, digiuni, giornate di nervi impizzati, e solo dopo me ne sono andato via. Era la fine del '59, avevo nove anni e uno a quell'età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi". Ninetto parte e fugge, lascia dietro di sé una madre ridotta al silenzio e un padre che preferisce saperlo lontano ma con almeno un cenno di futuro. Quando arriva a destinazione, davanti agli occhi di un bambino che non capisce più se è "picciriddu" o adulto si spalanca il nuovo mondo, la scoperta della vita e di sé. Ad aiutarlo c'è poco o nulla, forse solo la memoria di lezioni scolastiche di qualche anno di Elementari. Ninetto si getta in quella città sconosciuta con foga, cammina senza fermarsi, cerca, chiede, ottiene un lavoro. E tutto gli accade come per la prima volta...