L'Italia è una comunità nazionale leggera: ha scarso senso civico e non si riconosce in interessi generali. Si accende episodicamente come una comunità di sentimenti: il cordoglio per una scomparsa, la gioia per un successo sportivo talvolta denunciano il desiderio di condividere emozioni e sentire momenti di unità. L'unità, quando non sia frutto di conformismo, è un valore; ma raramente la storia italiana ha visto perseguito questo obiettivo. La patria ha sempre stentato a diventare una categoria del senso comune, perché gli italiani hanno coltivato con particolare passione l'interesse privato, perché sono spesso caduti nella tentazione delle lotte di fazione e delle guerre civili, perché sono soliti ignorare la loro storia e dividersi in estenuanti rese dei conti. In realtà, proprio la storia dice che la vera risorsa degli italiani è stata la loro diversità, l'incontro e lo scambio fra culture diverse, le addizioni di genti differenti. Ne sono testimoni l'arte e la letteratura, i modi di vivere e il gusto: questa è la patria che gli italiani possono vantare, un mondo aperto e non esclusivo; questa è l'idea da proporre contro la tentazione di nuove chiusure nazionalistiche e di improbabili definizioni identitarie. Oggi, in particolare.
Lo Stato governato dai Savoia ha costruito la sua stessa esistenza nel contesto europeo praticando incessantemente i teatri di guerra: per stringervi alleanze, per garantirsi guadagni territoriali e stabilità istituzionale. Fra il secolo XVI e il XIX, fortune finanziarie, feudi, titoli nobiliari, o le semplici braccia dei più umili sono state gettate sul tappeto di una generale contrattazione di ruoli, di privilegi e di precedenze in cambio di una disponibilità a seguire il principe nelle sue guerre. Una storia della guerra che diventa la via originale per indagare su vari piani il tema classico dei rapporti fra società e Stato nel lungo e contraddittorio periodo di transizione dal feudalesimo al capitalismo.