Vissuta fino al 1931 in una fattoria dentro una piantagione di caffè sugli altipiani del Ngong, Karen Blixen ha descritto con una limpidezza senza pari il suo rapporto d'amore con l'Africa. Sovranamente digiuna di politica, ci ha dato il ritratto forse più bello del continente nero, della sua natura, dei suoi colori, dei suoi abitanti. I Kikuyu che nulla più può stupire, i fieri e appassionati Somali del deserto, i Masai che guardano, dalla loro riserva di prigionieri in cui sono condannati a estinguersi, l'avanzata di una civiltà "che nel profondo del loro cuore odiano più di qualsiasi cosa al mondo". Uomini, alberi, animali si compongono nelle pagine della Blixen in arabeschi non evasivi, in una fitta trama di descrizioni e sensazioni che, oltre il loro valore documentario, rimandano alla saggezza favolosa di questa grande scrittrice, influenzando in modo determinante i contenuti della sua arte: "I bianchi cercano in tutti i modi di proteggersi dall'ignoto e dagli assalti del fato; l'indigeno, invece, considera il destino un amico, perché è nelle sue mani da sempre; per lui, in un certo senso, è la sua casa, l'oscurità familiare della capanna, il solco profondo delle sue radici".
"Il pranzo di Babette" e "La storia immortale", due dei più significativi racconti della raccolta "Capricci del destino", ruotano intorno al tema del contrasto tra mondo immaginario e mondo reale, tra le umane fantasie e le convenzioni dell'agire umano. Al centro de "Il pranzo di Babette", dal quale è stato tratto l'omonimo film vincitore dell'Oscar, è il personaggio della cuoca comunarda che, crollati gli ideali rivoluzionari, vive esule in un mondo grigio e frugale. Ma il potere visionario di Babette trionfa, paradossalmente e orgogliosamente, sulle miserie della quotidianità. Una notte d'amore tra un marinaio e una donna perduta è al cuore de "La storia immortale", dal quale è tratto il film omonimo di Orson Welles con Jeanne Moreau.