«La battaglia della fame, delle ingiurie, delle percosse, delle umiliazioni. Le nostre sofferenze hanno contribuito certo alla vittoria». Così scriveva Tullio Calliari, deportato in un lager di lavoro in Germania, come 650mila altri militari italiani dopo l'8 settembre 1943. Cinquantamila «Imi» (italienische Militär-Internierte) morirono in prigionia, molti tornarono con segni indelebili dell'incubo vissuto. Ma avevano resistito alla follia nazista.
«Noi internati militari abbiamo sofferto ciò che nessuno può immaginare. Raccontate pure che gli italiani di Badoglio (come ci chiamavano) sono morti di fame, sono stati ammazzati a legnate, sono stati impiccati perché costretti a rubare per fame. Le donne tedesche ci respingevano dai rifugi durante i bombardamenti, dicendo che per i traditori non c'è posto. Oggi le cose sono cambiate, ma solo pensare che noi possiamo perdere il ricordo è da pazzi» (Fürstenfeldbruck, 22.7.1945).
Calliari era impaziente e attendeva di partecipare allo sforzo collettivo richiesto da un Paese che faticosamente usciva dalla guerra e si liberava dalle macerie prodotte dal fascismo. Era anche preoccupato dall'idea che qualcuno volesse «perdere il ricordo». Queste pagine sono un antidoto (Giuseppe Ferrandi).
Settant'anni dopo la voce di Tullio Calliari ritorna come testimonianza dell'orrore di una guerra voluta dalle dittature nazifasciste, che ha insanguinato l'Europa.
A cura di Alberto Conci, con una prefazione di Giuseppe Ferrandi, direttore del Museo storico di Trento.