Tutto inizia con un cellulare spento. A telefonare è Ester, a non rispondere è Giulio, finito in ospedale a causa di un brutto tamponamento sulla via Aurelia. A riaccendere il telefonino, invece, è Giuditta, la moglie di Giulio, che ovviamente di Ester non sa nulla. Potrebbe essere l'inizio di una commedia rosa, ma il colore di questa storia è decisamente un altro: un testimone, infatti, sostiene che quello di Giulio non sia stato un incidente, ma un tentato omicidio, e la pratica passa dagli uffici dell'assicurazione a quelli del commissariato.
«Chiamatemi Tiresia. Per dirla alla maniera dello scrittore Melville, quello di 'Moby Dick'. Oppure Tiresia sono, per dirla alla maniera di qualcun altro. Zeus mi diede la possibilità di vivere sette esistenze e questa è una delle sette. Non posso dirvi quale. Qualcuno di voi di certo avrà visto il mio personaggio su questo stesso palco negli anni passati, ma si trattava di attori che mi interpretavano. Oggi sono venuto di persona perché voglio raccontarvi tutto quello che mi è accaduto nel corso dei secoli e per cercare di mettere un punto fermo nella mia trasposizione da persona a personaggio. Ho trascorso questa mia vita ad inventarmi storie e personaggi, sono stato regista teatrale, televisivo, radiofonico, ho scritto più di cento libri, tradotti in tante lingue e di discreto successo. L'invenzione più felice è stata quella di un commissario. Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant'anni, ho sentito l'urgenza di riuscire a capire cosa sia l'eternità e solo venendo qui posso intuirla. Solo su queste pietre eterne». La "Conversazione su Tiresia" scritta e interpretata da Andrea Camilleri è stata messa in scena per la prima volta al Teatro Greco di Siracusa i giugno 2018 nell'ambito delle rappresentazioni classiche realizzate dall'Istituto Nazionale del Dramma Antico.
"Se veramente un giorno riusciremo a sapere quale opinione hanno di noi gli animali, sono certo che non ci resterà da fare altro che sparire dalla faccia del pianeta, sconvolti dalla vergogna. Sempre che, tra cinquant'anni, gli uomini saranno ancora in grado di provare questo sentimento. Io, fortunatamente, non ci sarò. Ma vorrei che qualche mio pronipote consegnasse agli animali una copia di questo libretto perché di me, e di moltissimi altri come me, possano avere un'opinione sia pure leggermente diversa". (Andrea Camiller). Lo zoo personale di Andrea Camilleri è fatto di animali e di storie che entreranno nella nostra vita per sempre. Sono ritratti en plein air: impossibile leggerli e vederli senza sentire dentro qualcosa di fortissimo, perché sono pieni di affetto, confondono il confine tra la coscienza umana e quella degli animali e sono sempre a favore di questi ultimi, nel senso di un'armonia della vita solo nel rispetto di tutte le specie viventi. Cani, gatti, cardellini, ma anche volpi, serpenti e tigri sono descritti come portatori di uno spirito ricco di amore e di intelligenza, molto più complesso e profondo di quanto pensiamo: una 'magaria' inesauribile. Ciascuno di loro sembra comprendere la logica degli uomini, che di volta in volta sfrutta a suo favore o prova a sconfiggere con varie strategie, sempre vincenti: dalla dignità dei tacchini al canto riconoscente di un cardellino, dall'astuzia di un lepro alla commovente compostezza di un gatto innamorato, dalla mite bellezza di una capra alla puntualità discreta di un serpente. Allo stesso tempo Camilleri ci ricorda che forse il mondo è diventato troppo brutto perché la bellezza degli animali abbia diritto a esistere. Ogni storia ci lascia con la consapevolezza dolceamara di tutto quello che rischiamo di perdere, ma anche con la quieta fiducia che sia ancora possibile un mondo in cui convivere e rispettarsi, con l'ausilio di un po' di buon senso e di umorismo, un mondo meno prepotente e più meritevole di bellezza. Quella che Paolo Canevari con la grazia e la leggerezza dei suoi animali ha fissato sulla carta, anche lui, per sempre.
Una novella di Giovanni Boccaccio idealmente dedicata a Giovanni Bovara, studioso del "Decamerone", che poco prima di morire (1916) a causa delle ferite riportate durante la Prima guerra mondiale, scoprì fortunosamente uno scritto sconosciuto del Boccaccio. Questa novella fu poi nuovamente dimenticata per essere poi pubblicata, per la prima volta. È altamente probabile che la novella fosse stata portata al Nord dallo stesso Boccaccio per donarla a qualcuno quando, nel 1351, fu inviato in Tirolo come "ambaxiator solemnis" di Firenze. Qui, Camilleri racconta non solo come venne in possesso di una copia manoscritta dell'originale autografo, ma chiarisce anche le probabili ragioni che spinsero Boccaccio a escludere questa novella sia dalla Giornata Terza del Decamerone, a cui era originariamente destinata, che dalla raccolta definitiva.
"Ogni mattina alle sette, lavato, sbarbato, vestito di tutto punto mi siedo al tavolo del mio studio e scrivo. Sono un uomo molto disciplinato, un perfetto impiegato della scrittura. Forse con qualche vizio, perché mentre scrivo fumo, molto, e bevo birra. E scrivo, io scrivo sempre". Questo è Camilleri. Poi a novant'anni arriva il buio. E così come non era terrorizzato dalla pagina bianca, combatte anche l'oscurità della cecità e inizia a dettare. La sua produzione letteraria trova nell'oralità una nuova via per raccontare le sue storie. Ma se forte era la sua disciplina prima, lo è ancora di più oggi che può contare esclusivamente sulla sua memoria. E quindi occorre tenerla in esercizio: osservare nei dettagli i ricordi, rappresentarsi nella mente le scene. Quelli qui pubblicati, come dice lui, sono i compiti per l'estate: 23 storie pensate in 23 giorni, che raccontano come nitide istantanee la sua vita unica e, sullo sfondo, quella del nostro Paese. La memoria qui non è mai appesantita né dalla malinconia né dal rimpianto. Per questo Camilleri ha chiesto a chi parla attraverso i colori, le forme e i volumi di rendere il suo esercizio più godibile, più leggero, più spettacolare. "L'ideale della mia scrittura è di farla diventare un gioco di leggerezza, un intrecciarsi aereo di suoni e parole. Vorrei che somigliasse agli esercizi di un'acrobata che vola da un trapezio all'altro facendo magari un triplo salto mortale, sempre con il sorriso sulle labbra, senza mostrare la fatica, l'impegno quotidiano, la presenza del rischio che hanno reso possibili quelle evoluzioni. Se la trapezista mostrasse la fatica per raggiungere quella grazia, lo spettatore certamente non godrebbe dello spettacolo." Con illustrazioni di Alessandro Gottardo, Gipi, Lorenzo Mattotti, Guido Scarabottolo e Olimpia Zagnoli.
Che cosa rimarrà di noi nella memoria di chi ci ha voluto bene? Come verrà raccontata la nostra vita ai nipoti che verranno? Andrea Camilleri sta scrivendo quando la pronipote Matilda si intrufola a giocare sotto il tavolo, e lui pensa che non vuole che siano altri - quando lei sarà grande - a raccontarle di lui. Così nasce questa lettera, che ripercorre una vita intera con l'intelligenza del cuore: illuminando i momenti in base al peso che hanno avuto nel rendere Camilleri l'uomo che tutti amiamo. Uno spettacolo teatrale alla presenza del gerarca Pavolini e una strage di mafia a Porto Empedocle, una straordinaria lezione di regia all'Accademia Silvio D'Amico e le parole di un vecchio attore dopo le prove, l'incontro con la moglie Rosetta e quello con Elvira Sellerio... Ogni episodio è un modo per parlare di ciò che rende la vita degna di essere vissuta: le radici, l'amore, gli amici, la politica, la letteratura. Con il coraggio di raccontare gli errori e le disillusioni, con la commozione di un bisnonno che può solo immaginare il futuro e consegnare alla nipote la lanterna preziosa del dubbio.
"Il commissario Montalbano crede di muoversi dentro una storia. Si accorge di essere finito in una storia diversa. E si ritrova alla fine in un altro romanzo, ingegnosamente apparentato con le storie dentro le quali si è trovato prima a peregrinare. È un gioco di specchi che si rifrange sulla trama di un giallo, improbabile in apparenza e invece esatto: poco incline ad accomodarsi nella gabbia del genere, dati i diversi e collaborativi gradi di responsabilità, di chi muore e di chi uccide, in una situazione imponderabile e squisitamente ironica. Tutto accade in una Vigàta, che non è risparmiata dai drammi familiari della disoccupazione; e dalle violenze domestiche. La passione civile avvampa di sdegno il commissario, che ricorre a una «farfantaria» per togliere dai guai una giovane coppia di disoccupati colpevoli solo di voler metter su una famiglia. Per quanto impegnato in più fronti, Montalbano tiene tutto sotto controllo. Le indagini lo portano a occuparsi dell'attività esaltante di una compagnia di teatro amatoriale che, fra i componenti del direttorio, annovera Carmelo Catalanotti: figura complessa, e segreta, di artista e di usuraio insieme; e in quanto regista, sperimentatore di un metodo di recitazione traumatico, fondato non sulla mimèsi delle azioni sceniche, ma sull'identificazione delle passioni più oscure degli attori con il similvero della recita. Catalanotti ha una sua cultura teatrale aggiornata sulle avanguardie del Novecento. È convinto del primato del testo. E della necessità di lavorare sull'attore, indotto a confrontarsi con le sue verità più profonde ed estreme. Il romanzo intreccia racconto e passione teatrale. Nel corso delle indagini, Montalbano ha la rivelazione di un amore improvviso, che gli scatena una dolcezza irrequieta di vita: un recupero di giovinezza negli anni tardi. Livia è lontana, assente. Sulla bella malinconia del commissario si chiude questo possente romanzo dedicato alla passione per il teatro (che è quella stessa dell'autore) e alla passione amorosa. Un romanzo, tecnicamente suggestivo, che una relazione dirompente racconta in modo da farle raggiungere il più alto grado di combustione nei versi di una personale antologia di poeti; e, all'interno della sua storia, traspone i racconti dei personaggi in colonne visive messe in moviola perché il commissario possa farle scorrere e rallentare a suo piacimento." (Salvatore Silvano Nigro)
Il Venerdì Santo del 1890, durante la sacra rappresentazione che si tiene nei giorni della Settimana Santa, definita popolarmente il «Mortorio», il ragioniere Antonio Patò, che interpreta il personaggio di Giuda, scompare nella botola predisposta sul palcoscenico. Solo che al momento di ricevere gli applausi, del ragionier Patò non c’è più traccia. Che fine ha fatto? Il caso diventa l’argomento del giorno per i giornali locali, «l’Araldo di Montelusa» e la «Gazzetta dell’Isola». Delle indagini si occupano sia il Delegato di Pubblica Sicurezza che il Maresciallo dei Carabinieri che attraversano tutte le ipotesi, dalla perdita di memoria alla fuga d’amore, dal delitto di mafia, a problemi legati alla Banca di Trinacria di cui Patò è direttore, e non mancano supposizioni eccentriche, a metà tra la scienza e il mistero. Lasciamo la parola allo stesso Camilleri: «Questo libro intende essere una sorta di summa di temi che mi sono cari. Però, una volta tanto, volti decisamente al divertimento. Si tratta di un’indagine portata avanti congiuntamente dalla polizia e dai carabinieri dell’epoca al fine di arrivare al bandolo di questa matassa. Mi sono inventato una quantità di cose, partendo solo da questo esile spunto. Questo Patò, ragioniere scomparso, in realtà è il nipote di un senatore, che è sottosegretario agli interni. Per questa scomparsa si mobilita il mobilitabile. Il senatore è abbastanza chiacchierato, e pare che si serva del nipote, direttore della filiale di Vigàta di una banca, per gestire i suoi loschi traffici. Quindi, tutto è possibile sulla scomparsa di Patò. Naturalmente, la verità poi sarà rivelata da due poveracci indagatori, che partiti come il cane e il gatto all’inizio, veri nemici giurati, si ritrovano sempre più affratellati, via via che questa indagine dimostra la pericolosità delle loro carriere». s
Trenta storie, divertenti e sorprendenti, con protagonista Montalbano. «Ladri, suicidi veri e suicidi non veri, un morto vivente, delitti e vari tentativi criminali, un diavolo che diavolo non è, acrobati, un re pastore e una veggente, figli e padri difficili, storie varie d’amore con colpi di scena imprevedibili: un rompicapo dietro l’altro, per il commissario, in un «romanzo» lungo un mese» (Salvatore Silvano Nigro).
Montalbano ha talvolta una franchezza insolente. È capace di rispostacce. Ma anche di una scanzonata levità. Lo soccorre l’ironia. E l’autoironia. Il commissario vanta «sangue di sbirro», senza frenesie però. Si prodiga persino in indagini «a ritroso nel tempo», che lo convincono a lasciare sepolto nelle macerie della storia il tragico segreto da lui scoperto; oppure preferisce condurre un’inchiesta parallela, stando nell’ombra, con la consueta vigilanza, con un sorriso arguto, e una sollecitudine anonima. Arriva a sentire inappropriata la divisa del detective armato di binocolo. L’indossa, solo per ridicolizzarsi: «Era atterrito all’idea che qualcuno del paìsi potesse vederlo col coppo... e un binocolo da teatro in mano intento a scrutare, proprio in cima al molo, non l’orizzonte, ma gli scogli che stavano sotto a lui». Ricorre all’«inquadratura» dei particolari più invisibili, ma «a fiuto» e «a pelle», con l’intuito e i sensi: «In questo consistevano il suo privilegio e la sua maledizione di sbirro: cogliere, a pelle, a vento, a naso, l’anomalia, il dettaglio macari impercettibile che non quatrava con l’insieme... Nel mondo che il suo occhio inquadrava qualcosa stonava». La collaborazione tra l’olfatto, la vista, e il tatto, lo dota di percezioni sinestesiche; gli fa incrociare sfere sensoriali diverse: «l’angoscia densa, la desolazione palpabile, la disperazione visibile... fetevano di un giallo marcio». Montalbano non dismette le «travediate». Ma ricorre anche a un marchingegno letterario. Ordina in racconto convincente i risultati della sua filologia investigativa (attenta pure a quella singola parola che apre «un abisso di sottintesi»); e garbatamente mette in campo la «storia» raccontata per accordare le parti in causa sulla verità dei fatti: e capita che la verità esiga l’indulgenza di Montalbano per l’umana debolezza. «E ora che fare?». La verità è stata acquisita. «E poi?», dice Montalbano: doveva essere, sempre e comunque, un giustiziere? Il turbamento del commissario ha la profondità morale dell’ansia notturna dell’Innominato nei Promessi sposi: «E poi? che farò... che farò?». Un mese con Montalbano è una raccolta di trenta racconti, già pubblicata da Mondadori nel 1998. Se è vero che il racconto sta al romanzo come una fotografia sta a un film, è anche vero che la sequenza delle «situazioni» del libro si configura come un film-romanzo in trenta episodi-capitoli. Qualche flashback sugli anni giovanili del commissario completa e arricchisce il «romanzo», dentro il quale convivono ladri, suicidi veri e suicidi non veri (e non è detto che un omicidio sia davvero omicidio), un morto vivente, delitti e vari tentativi criminali, un diavolo che diavolo non è, acrobati, un re pastore e una veggente, figli e padri difficili, storie varie d’amore con colpi di scena imprevedibili: un rompicapo dietro l’altro, per il commissario, in un «romanzo» lungo un mese. Salvatore Silvano Nigro
"Ogni mattina alle sette, lavato, sbarbato, vestito di tutto punto mi siedo al tavolo del mio studio e scrivo. Sono un uomo molto disciplinato, un perfetto impiegato della scrittura. Forse con qualche vizio, perché mentre scrivo fumo, molto, e bevo birra. E scrivo, io scrivo sempre. Questo è Camilleri. Poi a novant'anni arriva il buio. E così come non era terrorizzato dalla pagina bianca, combatte anche l'oscurità della cecità e inizia a dettare. La sua produzione letteraria trova nell'oralità una nuova via per raccontare le sue storie. Ma se forte era la sua disciplina prima, lo è ancora di più oggi che può contare esclusivamente sulla sua memoria. E quindi occorre tenerla in esercizio: osservare nei dettagli i ricordi, rappresentarsi nella mente le scene. Quelli qui pubblicati, come dice lui, sono i compiti per l'estate: 23 storie pensate in 23 giorni, che raccontano come nitide istantanee la sua vita unica e, sullo sfondo, quella del nostro Paese. La memoria qui non è mai appesantita né dalla malinconia né dal rimpianto. Per questo Camilleri ha chiesto a chi parla attraverso i colori, le forme e i volumi di rendere il suo esercizio più godibile, più leggero, più spettacolare. L'ideale della mia scrittura è di farla diventare un gioco di leggerezza, un intrecciarsi aereo di suoni e parole. Vorrei che somigliasse agli esercizi di un'acrobata che vola da un trapezio all'altro facendo magari un triplo salto mortale, sempre con il sorriso sulle labbra, senza mostrare la fatica, l'impegno quotidiano, la presenza del rischio che hanno reso possibili quelle evoluzioni. Se la trapezista mostrasse la fatica per raggiungere quella grazia, lo spettatore certamente non godrebbe dello spettacolo."