Le lettere di Kafka a Felice Bauer raccontano qualcosa di più di un'impossibile storia d'amore: Elias Canetti se ne rese conto nel 1967 leggendone una selezione sulla «Neue Rundschau», e immediatamente si accordò con l'editore della rivista per pubblicare un saggio sull'argomento. Fu l'inizio di un corpo a corpo, dove l'interpretazione chiamava in causa la vita dell'autore - la sua persona fisica, la magrezza, l'ipocondria, l'ossessione per la notte e il silenzio - e insieme quella dell'interprete. L'esito di tale scontro fu L'altro processo, che irritò per la spregiudicatezza con la quale Canetti riconduceva l'opera di Kafka (e la più ermeticamente sigillata, Il processo) alla sua biografia (la rottura del fidanzamento con Felice) - proprio lui che aveva sempre lottato perché quell'opera venisse presa alla lettera. Grazie agli appunti preparatori, molti dei quali inediti, qui raccolti insieme ad altri saggi e conferenze su Kafka, possiamo immergerci per la prima volta in quel «processo» di avvicinamento, fatto di violenze, fughe e sottomissioni, quasi ci trovassimo di fronte alla descrizione di una battaglia sovrapposta a una confessione cifrata. «Non credo che vi siano persone la cui condizione interiore sia simile alla mia, o almeno posso immaginarmi tali persone, ma che attorno alle loro teste voli continuamente il corvo segreto come attorno alla mia, questo non riesco neppure a immaginarlo» annotò una volta Kafka nei suoi Diari. Oggi, leggendo finalmente nella loro totalità queste pagine, possiamo dire che si sbagliava.
Il libro più importante della sua vita, Canetti lo portò sempre dentro di sé ma non lo compose mai. Per cinquant'anni procrastinò il momento di ordinare in un testo articolato i numerosissimi appunti che, nel dialogo costante con i contemporanei, con i grandi del passato e con i propri lutti familiari, andava prendendo giorno dopo giorno su uno dei temi cardine della sua opera: la battaglia contro la morte, contro la violenza del potere che afferma se stesso annientando gli altri, contro Dio che ha inventato la morte, contro l'uomo che uccide e ama la guerra. Una battaglia che era un costante tentativo di salvare i morti - almeno per qualche tempo ancora - sotto le ali del ricordo: «noi viviamo davvero dei morti. Non oso pensare che cosa saremmo senza di loro». Sospeso tra il desiderio di veder concluso "Il libro contro la morte"- «È ancora il mio libro per antonomasia. Riuscirò finalmente a scriverlo tutto d'un fiato?» - e la certezza che solo i posteri avrebbero potuto intraprendere il compito ordinatore a lui precluso, Canetti continuò a scrivere fino all'ultimo senza imprigionare nella griglia prepotente di un sistema i suoi pensieri: frasi brevi e icastiche, fabulae minimae, satire, invettive e fulminanti paradossi. Quel compito ordinatore è assolto ora da questo libro, complemento fondamentale e irrinunciabile di Massa e potere: ricostruito con sapienza filologica su materiali in gran parte inediti, esso ci restituisce un mosaico prezioso, collocandosi in posizione eminente fra le maggiori opere di Canetti.
Nelle sue memorie Canetti scriverà, a proposito della massa: "È un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita e, seppure sono arrivato a qualcosa, l'enigma nondimeno è restato tale". Il "qualcosa" a cui qui si allude è "Massa e potere": la sua lunghissima genesi - apparve dopo trentotto anni di elaborazione - fa capire quale immensa energia, concentrazione, furia si sia depositata nelle pagine di questo libro. Un libro che è un vasto mito costellato di tanti altri miti - spesso dissepolti con passione da libri dimenticati nell'oscurità delle biblioteche -, dove Canetti, con l'asciuttezza vibrante di un annalista cinese, riesce a saldare in un tutto l'immane storia che vive in ciascuno di noi, iscritta nei nostri gesti elementari.
Nella Premessa a "La provincia dell'uomo" Canetti rivela che dedicarsi ai quaderni di appunti lo salvò dalla opprimente concentrazione su un'unica opera, "Massa e potere", e da "un irrigidimento fatale". Una "valvola di sfogo", dunque, che col tempo conquistò tuttavia sempre più spazio, sino a diventare uno dei pilastri della sua opera, giacché l'acutezza e l'intensità di pensiero che vi sono dispiegate annoverano Canetti fra i più grandi autori di aforismi. Si può allora capire quale meraviglia e quale sensazione abbia suscitato la scoperta di un manoscritto autografo dove sono radunati centoventinove 'aforismi' risalenti al settembre-ottobre 1942: testi non solo in gran parte sconosciuti ma che, come ha notato Jeremy Adler, "contengono già le linee fondamentali della prosa breve di Canetti". Redatto in inchiostro blu scuro, con titoli e dedica in pastello giallo, e rilegato da un cordoncino dorato, il manoscritto fu offerto come dono di compleanno alla pittrice Marie-Louise von Motesiczky, con la quale Canettì aveva avviato in Inghilterra una relazione destinata a durare oltre mezzo secolo. E fu offerto il 24 ottobre 1942, mentre i tedeschi ingaggiavano contro i russi la terribile battaglia di Stalingrado e in Inghilterra - dove Canetti e la Motesiczky erano esuli - giungevano incessanti le notizie delle violenze perpetrate nei paesi occupati.
"Libro salvato" dopo un lungo lavoro filologico, questo volume conclude l'autobiografia di Canetti con gli anni dell'emigrazione in Inghilterra. Un paese che suscita in lui reazioni contrastanti: ammirazione per i suoi istituti democratici e per il coraggio mostrato contro Hitler, ma anche insofferenza per la britannica arte di escludere, per l'altezzosa condiscendenza esibita verso gli apolidi della cultura. "Ma Lei ha conosciuto Kafka?" gli chiede l'insolitamente benevolo ospite di un party. Accade così che Canetti, negli anni roventi in cui elaborava "Massa e potere", vivesse in una paradossale situazione di solitudine intellettuale, pur abitando in una città di alta tradizione come Londra.
Elias Canetti soggiornò per un certo periodo a Marrakech, nel 1954. Il grande lavoro su "Massa e potere" era giunto a un momento di stasi e lo scrittore sentiva il bisogno di nuove voci, di voci incomprensibili, come quelle che lo avvolsero nella splendida città marocchina. Vagando per i suk, per le strette vie, per i mercati e le piazze, fra cammelli, mendicanti, donne velate, cantastorie, farabutti, ciechi e commercianti, Canetti capta forme e suoni: "gli altri, la gente che ha sempre vissuto là e che non capivo, erano per me come me stesso".
Canetti appartiene a quegli scrittori che nella vecchiaia hanno raggiunto un alto grado di libertà e sovranità dello spirito. Qui applicata a ritessere ancora una volta il suo pensiero su temi che lo hanno sempre accompagnato, come la massa, la morte, il mito. Ma la forma degli "appunti", molto agile, consente a Canetti anche di puntare in tutt'altre direzioni: ammirazioni relativamente recenti e intensissime, come quella per Robert Walser; avversioni antiche che continuamente si riaccendono, come quella per Nietzsche; ricordi acuminati di persone che nella vita di Canetti molto hanno contato.
Da una parte un grande studioso, Kien, che disprezza i professori, ritiene superflui i contatti con il mondo e ama in fondo una cosa sola: i libri. Dall'altra la sua governante, Therese, che raccoglie in sé le più raffinate essenze della meschinità umana. Il romanzo racconta l'incrociarsi di queste due remote traiettorie e ciò che ne consegue: la minuziosa, feroce vendetta della vita su Kien, che aveva voluto eluderla con la stessa accuratezza con cui analizzava un testo antico.
Avete mai incontrato il Leccanomi o il Tirainlungo? O l'Appaltadolori e la Filaguai? O la Sultanomane e il Bentistà? Mah... Per mettere in chiaro le cose e constatare che dietro nomi tanto inusitati si celano molte nostre vecchie conoscenze, oltre a un discreto numero di esseri fantastici e insieme plausibili, occorre sfogliare le pagine di questo libro, fra i più "leggeri" di Canetti. Vi si trovano non già una galleria di ritratti morali, ma un album di fisionomie auditive, altrettanto spiccate e inconfondibili di quelle visive. Qui è all'opera un implacabile ascoltatore, il Testimone auricolare, che, se "non affatica la vista, in compenso ha un udito tanto più fine", prende nota di tutto ciò che sente e lo trasforma in personaggio.
Il più intenso ritratto-racconto di Vienna, quando i suoi abitanti erano Robert Musil, Hermann Broch, Alban Berg o l’affascinante dottor Sonne che, seduto al suo tavolo del Café Museum, «parlava come Musil scriveva».