"Onestade" designa nell'italiano antico un criterio etico ed estetico basato sul giusto equilibrio tra il bello e l'utile, una nozione risalente all'honestum di Cicerone che lo intendeva come insieme delle virtù cardinali e fine della vita morale. Questo libro indaga la scissione di quella diade tra Cinquecento e Seicento, a partire dall'affermarsi della priorità machiavelliana conferita a ciò che è pratico e materiale. L'"onestade" viene progressivamente a identificarsi con quelle buone maniere che celano di fatto l'utile personale, mentre si afferma una cultura della conversazione e del conformismo che porta con sé l'attenzione al controllo e alla lettura delle emozioni. La svolta finale avviene con il giusnaturalismo che pone le emozioni, come moventi delle azioni, al centro del discorso morale, spodestando le virtù. Alla fine del percorso stanno il concetto di onestà moderna, che si misura con il diritto, l'utilitarismo, che pone l'utile come fonte e fine del bene personale e civile, e il personaggio del "romanzo moderno" che, a differenza dell'"eroe cavalleresco" predestinato dall'orizzonte dell'"onestade", è condannato a scrivere la propria storia.