Dal giorno in cui, sessant'anni fa, piovve terra sulla terra, e terra nell'acqua, e terra su duemila anime morte, di cui quattrocentottantasette bambini, a Erto il tempo ha continuato a oscillare tra dolore e speranza di rinascita, ricordi tragici e difficili presenti, memoria di una povertà aspra e dura ma viva e vitale che si riflette nel benessere vuoto e triste dell'oggi. La voce narrante di questo romanzo lirico, struggente, ferocemente intimo, conduce il lettore in un continuo andare e venire su e giù nel tempo: il vecchio ricorda e racconta il suo mondo com'era, prima che la cieca avidità dell'uomo lo distruggesse, e insieme racconta la sua vita, l'infanzia e la prima adolescenza, la spensieratezza di tre fratelli che si alterna alla incomprensibile violenza della vita famigliare, e che si deve misurare con il tormento di una comunità stravolta dal dolore. E poi la maturità e la vecchiaia, il presente, che porta su di sé il peso di una vita intera: e il simbolo di tutto questo sono le altalene del paese, che il narratore ricorda nel loro oscillare gioioso tra le grida felici dei bambini, e che vede oggi ferme, vuote, arrugginite. Un racconto poetico e sentitissimo, in cui Corona lascia libero il flusso dei ricordi e si concede ai suoi lettori con assoluta e generosa sincerità. I suoi luoghi, Erto, la diga, la montagna, così come le persone della sua vita, vengono filtrati dal tempo passato, e forse perduto, in un romanzo-monologo dove la profondità e il fascino del racconto sono impreziositi da una voce narrante sempre più risolta e convincente.
Rocciatore, taglialegna, scalpellino, minatore, apicoltore: chi è Celio? "Un niente" risponde lui, un semplice signor nessuno di un paesino sulle Alpi che è terra di nascita dell'autore. È lui a far rivivere Celio, a strapparlo all'oblio per renderlo personaggio vero, sfuggente, pulsante di idiosincrasie e contraddizioni. Insofferente alle persone fino alla misantropia, il protagonista si rifugia in se stesso, nell'ermeticità del dialetto ladino e nell'abbraccio ambiguo dell'alcol, che lo stringerà per tutta la vita, fino al delirio e alla morte. In Celio, conosciuto durante la problematica infanzia e quarant'anni più vecchio di lui, l'autore troverà un inaspettato mentore, una protezione dalle violenze perpetrate dal padre, una via d'accesso privilegiata ai misteri e alla saggezza della natura, rivelatasi solamente per lui. Nel racconto, Mauro Corona si riscopre bambino, mettendo nero su bianco le parole - sempre misurate, mai lasciate al caso - dell'anziano amico e compagno di bevute, alla ricerca delle radici di un male di vivere sempre scacciato e mai sopito, nel duro e apparentemente impenetrabile cuore da montanaro. Una scrittura aspra, nervosa e autentica al pari del protagonista di questo romanzo, dietro le cui vicissitudini si legge in controluce l'autobiografia dell'autore, vero alter ego di Celio e solo testimone di un'esistenza che si fa simbolo di una terra sospesa nel tempo, in cui la solitudine, portata su di sé come una croce, sembra l'unico rimedio al contagio della miseria e del dolore. Le uniche leggi e autorità riconosciute sono quelle della natura, al contempo madre e matrigna. Come il vecchio accendino a benzina, ereditato dal maestro, l'allievo tiene viva la fiamma del ricordo e fa luce sul potere dell'amicizia, rara e inafferrabile ma capace di farsi salvifica nell'ostilità e nell'indifferenza del mondo.
Parlare di montagna equivale a parlare dell'intera esistenza, e di come in essa si intende prendere posto. E amare la montagna significa stare al mondo con franchezza, desiderio di avventura, accortezza e spirito di solidarietà, rispetto per la vita in tutte le sue manifestazioni.
«Un deposito di memorie, un vademecum, una filosofia di vita» – Il Venerdì
Mauro Corona e Matteo Righetto, gli scrittori italiani più autorevoli sull'argomento, danno voce a ciò che per loro la montagna rappresenta, attingendo a un ricchissimo tesoro di esperienze personali, qui condensate in brevi racconti, epigrammi fulminanti, descrizioni di paesaggi naturali di bellezza inesprimibile. In queste pagine troviamo l'asprezza della roccia e la sfida delle vette, ma anche la carezza accogliente dei boschi, il ritmo lento del passeggiare; i ricordi vivissimi di un tempo che non esiste più e la consapevolezza urgente delle responsabilità da assumersi perché gli ambienti naturali possano sopravvivere ed essere il futuro dei nostri figli. I sedici milioni di abeti distrutti dal ciclone che si è abbattuto sulle Dolomiti alla fine del 2018 evocano i caduti della Prima guerra mondiale, perché «gli alberi sono come le persone, e le foreste sono intere comunità». La descrizione di un camoscio, che con abilità di equilibrista si muove tra i picchi più impervi, sfocia in una riflessione sul cambiamento del ruolo del padre nella società contemporanea, una figura ormai così priva di spigoli da rendere difficile assumerla come riferimento e appoggio. E invece, dal momento che gli esseri umani sono alpinisti inconsapevoli e chi «guarda il cielo sente la vertigine della bellezza ma anche il vuoto del precipizio», l'appiglio è cruciale, nell'arrampicata come nella vita. La narrativa potente di due grandi scrittori in un libro che si legge con la facilità e la soddisfazione con cui si raccolgono i mirtilli, grazie alla struttura classica e accattivante del sillabario.
Nel fitto di un bosco di uno dei monti dell'Italia settentrionale un uomo ritrova una baita appartenuta ai suoi antenati. Decide di ristrutturarla, per andarci a vivere e sfuggire così alla crudeltà del mondo che lo circonda. Ma, mentre lavora, un colpo di piccone bene assestato cambia per sempre la sua vita. Dietro la calce, in un'intercapedine del muro, trova i corpi mummificati di tre donne. E si accorge che sulla loro carne sono stati incisi dei segni, quasi lettere dell'alfabeto di una lingua misteriosa e sconosciuta. Qual è la storia delle tre donne? Chi le ha nascoste lì? Qual è il terribile messaggio che quelle lettere vogliono comunicare? Ed è possibile che la cerva dagli occhi buoni che sbuca ogni sera dal bosco voglia davvero proteggere l'uomo e rivelargli qualcosa? Mentre le tre mummie cominciano a infestare i suoi pensieri e i suoi sogni, trasformandoli in incubi e allucinazioni, l'uomo si mette alla ricerca della verità, una ricerca che può portarlo alla perdizione definitiva o alla salvezza. O forse a entrambe. Mauro Corona, dopo anni in cui si era dedicato a forme più brevi, torna al romanzo vero e proprio. E lo fa con un libro che racconta la maestosità della natura e la cattiveria degli uomini, denso di immagini - per esempio quella del pivason, l'uccello-vampiro, e del suo spaventoso verso, presagio di morte - e di momenti di lirismo, come la scena in cui il protagonista scende in una foiba e dentro una pozza d'acqua scopre un piccolo essere di cui si sente improvvisamente e inaspettatamente fratello. Con "Nel muro", Corona torna a raccontare i boschi, gli animali e gli uomini della sua terra.
"Quasi niente" ha il sapore antico delle storie narrate un tempo davanti al focolare. Storie che intrattenevano liberando sapienze semplici ed essenziali, di cui oggi si sente la mancanza. In quest'epoca frenetica dominata dai miti del successo, della vittoria a ogni costo e dell'arricchimento, Corona e Maieron portano un contributo diverso e spiazzante. Parlano di sconfitta, fragilità, desiderio, pace interiore, lealtà, radici, silenzio, senso del limite, amore, rievocando personaggi leggendari come Anna, Silvio, Menin, Tituta, Tacus, Orlandin, Cecilia, Tin, il trio Pakai e molti altri. Uomini e donne che non hanno trovato spazio nei libri di storia ma hanno saputo lasciare un messaggio illuminante, che può trasformare le nostre vite. "Quasi niente" nasce dall'incontro tra due grandi amici che, in una conversazione appassionata e godibilissima, alternano delicatamente storie, aneddoti, riflessioni e citazioni regalandoci un piccolo e prezioso gioiello. Una filosofia minima e pratica che al linguaggio gridato preferisce l'arte di sussurrare, in cui l'etica del fare ha sempre la meglio sull'estetica dell'apparire. Una filosofia che proviene da un passato rievocato senza nostalgie. Un tempo in cui i valori erano vissuti concretamente non per moralismo ma perché aiutavano a stare meglio. È l'ultima traccia di un mondo ben diverso da quello in cui viviamo oggi. Un mondo duro, feroce, ma che ha ancora molto da insegnarci.
"Nessuno è tanto annoiato quanto un ricco" dice Mauro Corona parafrasando il grande poeta Iosif Brodskij, e lo sa bene il protagonista di questo romanzo, un ragazzo talmente abituato a ottenere tutto dalla vita che ormai da tutto è nauseato. Di ottima famiglia, ricchissimo e anche piuttosto affascinante, a nemmeno trent'anni è già uno stimato ingegnere cui non manca davvero nulla: ville, automobili, ma anche amici, donne e salute. Un eccesso di cose per lui sempre più opprimente... È per questo che di punto in bianco decide di dare una svolta radicale alla sua esistenza abbandonando il lavoro e rinunciando a ogni comodità per andare a vivere in una baita di montagna. E proprio mentre comunica ai genitori l'intenzione di ritirarsi sdegnosamente dal mondo, ne capisce ancora più profondamente le ragioni. Evocando le memorie dell'infanzia, scopre infatti i ricordi buoni: visioni di cime lontane, limpide sorgenti, ruscelli canterini, pascoli verdi e cascate lucenti di sole. Sì, il sole! È lui il ricordo più bello, il vero motivo che lo spinge a lasciare tutto e trasferirsi lassù. Ma una volta tra i monti, dove finalmente può dedicarsi incessantemente alla contemplazione della palla infuocata, si accorge che le ore di luce a sua disposizione non gli bastano più...
Sull'Appennino tosco-emiliano, non lontano dall'Abetone, c'è una valle stretta e tortuosa, e in fondo una casa, una piccola casa con il tetto coperto di plastica colorata e due comignoli che buttano fumo sempre, estate e inverno. Un industriale della seta torna ai boschi dove un tempo andava a far funghi e la vede, quella casa. Malgrado il fuoco acceso sembra disabitata. È incuriosito. Entra. E lì comincia la sua avventura, che lo strappa alla mesta quotidianità del danaro e del potere per precipitarlo dentro un vertiginoso delirio, che è prova e passaggio, alla scoperta di sé. Mauro Corona scrive una piccola grande storia che suona come un apologo ed è allegoria della condizione umana quando perde di vista la semplicità dei valori cardine.
Nel poetico e tenebro mondo boschivo di Mauro Corona, non è raro imbattersi in una favola. Ma non è scontato che si tratti di una favola idilliaca, perché è proprio quando la narrazione si avventura nel fantastico che l'autore trova l'occasione per far emergere con forza la sua vena più caustica e dissacrante. E questa volta è chiaro più che mai: "Ho scritto una fiaba cattiva sul Natale, perché il Natale è una festa cattiva dove si scoprono i cattivi che fanno i buoni". Se con "Una lacrima color turchese" ci aveva portato ad accettare lo straordinario, ovvero l'eccezionale scomparsa del Bambin Gesù, fuggito dai presepi di tutto il mondo per provocazione, in questo suo ideale seguito si spinge ancora più in là, sfidandoci ad accogliere il diverso. "Favola in bianco e nero" si apre, infatti, con la prodigiosa apparizione di due statuine del Bambin Gesù, una con la pelle bianca e l' altra con la pelle nera, che si materializzano, inaspettatamente, allo scoccare della mezzanotte in tutte le case del mondo. La reazione che si scatena, però, è piuttosto prevedibile, perché tutti cercano di rimuovere la statuina di colore; del resto, la tradizione vuole che Gesù abbia la pelle bianca, nessuno è in grado di tollerare una simile anomalia.
Non tutti hanno la capacità immediata di comprendere fino in fondo i segreti della montagna. Vedono le cime come blocchi turriti, pilastri di roccia scabri e senza valore, ammassi di pietre inutili sorti qua e là per capriccio del tempo. Basta, però, alzare lo sguardo ed essere sovrastati dall'imponenza del mare verticale, con i suoi milioni di granelli di sabbia, per sentire nascere lo stupore. Lo stupore che genera domande. Le domande che generano misteri: chi ci sarà lassù? Vi abita qualcuno? E, se esiste, come sarà fatto? Nei boschi, tra le rocce, dentro l'alba, sotto le foglie, sulle vette ancora inesplorate. Lì dormono i segreti della montagna. E Mauro Corona ci accompagna ancora una volta a scoprirli, tendendoci la mano, aiutandoci a salire. Ci esorta a giocare con il rimbalzo dell'eco, che vuole sempre l'ultima parola, ad ascoltare la voce del vento, che non sapremo mai da dove nasce. Ci conduce lungo i ruscelli a spiare le ninfe dai lunghi capelli d'acqua, ci indica il sentiero per raggiungere il grande abete bianco - adagiando l'orecchio al tronco, sentiremo il suo cuore battere. La montagna è viva, ha cinque sensi protesi a conoscere il mondo. E come tutti gli esseri speciali ha anche un senso in più: la percezione. Grazie a lei, può scoprire in anticipo le barbare intenzioni dei politici che vogliono ferirla, strizzarla, spremerla fino a distruggerla, pur di incassare moneta sonante.
C'è un popolo che vive di stenti in una terra ostile. Una terra in cui nevica sempre, anche d'estate, le valanghe incombono dalle giogaie dei monti e le api sono bianche. E gli uomini hanno la carnagione pallida, il carattere chiuso, le parole congelate in bocca. Però è gente capace di riconoscenza, di solidarietà silenziosa, uomini e donne con un istinto operoso che li fa resistere senza lamentarsi, anzi, addirittura lavorare con creativa alacrità, con una fierezza gioiosa, talvolta, pronti a godere dei rari momenti di requie, della bellezza severa del paesaggio, della voce allegra del loro "campo liquido", il torrente che, scorrendo sul fondo della valle, dà impulso a segherie e mulini. Il torrente è una delle voci di questi uomini freddi solo all'apparenza, ed è l'acqua - neve allo stato liquido, si potrebbe dire, che, se da un lato mette in moto tutte le attività, dall'altro innesca il dramma che sta sospeso su quelle vite grame eppure, in qualche modo, felici. Corona ci ha abituato alle narrazioni corali, alle epopee umili di gente che avanza compatta con le proprie storie senza storia solo perché nessuno ha voluto abbassare l'orecchio al livello del suolo per ascoltarne la voce flebile eppure emozionante. Vite che, come scriveva Ungaretti dei morti: "Non fanno più rumore del crescere dell'erba, lieta dove non passa l'uomo". All'armonia di una vita aspra ma equilibrata si contrappone il ritmo disumano delle "città fumanti"...