A lungo l'etnologo Giuseppe Pitrè lavorò per raccogliere il "prezioso tesoro del popolo siciliano" e nel 1875 pubblicò le Fiabe, novelle e racconti in quattro volumi. Tanta fatica non fu compresa. Un indignato disprezzo accolse la pubblicazione, la "Gazzetta di Palermo" scrisse che si trattava di "quattro volumi di porcherie". Solo lontano dalla Sicilia le Fiabe furono apprezzate. Oggi sono cadute nell'oblio, ma custodiscono un nucleo identitario davvero prezioso in un'epoca globalizzata che tutto appiattisce. Amelia Crisantino ha scelto le più belle: le ha tradotte dal dialetto di metà '800, ha tolto le incrostazioni di un dettato linguistico non più praticato e spesso di ardua comprensione, rendendole di nuovo godibili.
Le interpretazioni sulla mafia sono state sviluppate in molti libri e nelle sentenze dei tribunali, quello che continua a difettare è la genesi delle cause. Ci vengono offerti ragionamenti irti di nomi, strategie, traffici internazionali, guerre fra cosche vincenti e perdenti, sempre dentro scenari recenti e con protagonisti feroci finché si vuole, il cui potere però non si spiega senza chiarire le circostanze che lo hanno reso possibile. Forse si teme che la strada da fare a ritroso nel tempo porti lontano, smarrendosi in contrade dove gli indizi diventano vaghi e i contrasti poco definiti. Ma tentare di ricostruire come il sistema mafioso si è radicato nel tempo lungo della storia, così duttile da mimetizzarsi e poi rispuntare esibendo nuove vitalità, serve a comprendere il nostro frastornato presente.