Nadine aveva promesso che il suo articolo avrebbe cambiato le coscienze sul caso di Evelina. Avrebbe dimostrato che il braccio di quella ragazzina di colore era stato guidato dalla rabbia che l'aveva nutrita fin dalla nascita. Avrebbe spiegato che la pietra che aveva ucciso il giovane volontario americano era stata scagliata dalla frustrazione per la vana attesa dell'uguaglianza, dall'ingiustizia fattasi legge nel Sudafrica dell'apartheid. Ma poi, subentrata una notizia più incalzante all'estremità opposta del pianeta, Nadine aveva piantato tutto in asso e se n'era andata. Dei suoi trentacinque anni, ne ha trascorsi la maggior parte così, correndo da un capo all'altro del mondo, sempre in prima linea nelle zone più pericolose, sempre attenta a non confondere lavoro ed emozioni, a schivare attentamente gli affetti in nome della sua carriera di reporter. Eppure c'è qualcosa, in Sudafrica, che non è riuscita a lasciarsi del tutto alle spalle. Dopo dieci anni, all'avvio dei processi volti ad accertare i crimini commessi dal regime dell'apartheid e favorire la riconciliazione nazionale, Nadine decide di tornare laggiù.