Il perdono è una merce decisamente rara a tutte le latitudini, in tutte le culture e anche, guarda un po', per tutte le religioni. È una buona intenzione - in verità, più invocata che praticata - per tante anime generose e pie, ma una pratica ostica anche per mistici, asceti, uomini di Dio e credenti devoti. Si va anche benino per una volta, ma per «settanta volte sette» è decisamente complicato. Ma poi è giusto? Si ritiene che ci debba essere un buon motivo per perdonare. Ma non c'è altro motivo che la parola di Dio. Ce lo ricordano chiaramente gli autori di questi commenti alla Sura XXXIX, 53-54: l'ebreo Davide Assael, la cattolica Antonella Casiraghi, il senatore Elvio Fassone e il musulmano 'Abd al-Ghafur Masotti. Chi vi riesce alla fine? Per essere tale il perdono supera la pratica della giustizia, padroneggia i desideri del cuore e apre la strada alla misericordia ricevuta e donata. È il sentiero di Dio. Un «punto d'incontro» tra tutte le religioni. Una lettura destinata a ogni uomo di buona volontà.
Una corrispondenza durata 26 anni tra un ergastolano e il suo giudice. Nemmeno tra due amanti, ammette l'autore, è pensabile uno scambio di lettere così lungo. Questo non è un romanzo di invenzione, ma una storia vera. Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese; il processo dura quasi due anni, tra i condannati all'ergastolo Salvatore, uno dei capi a dispetto dei suoi 28 anni, con il quale il presidente della Corte d'Assise ha stabilito un rapporto di reciproco rispetto e quasi - la parola non sembri inappropriata - di fiducia. Il giorno dopo la sentenza il giudice gli scrive d'impulso e gli manda un libro. Ripensa a quei due anni, risente la voce di Salvatore che gli ricorda, "se io nascevo dove è nato suo figlio adesso era lui nella gabbia". Non è pentimento per la condanna inflitta, né solidarietà, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena. E non astrattamente, ma nel colloquio continuo con un condannato. Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra la voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis. La corrispondenza continua, con cadenza regolare caro presidente, caro Salvatore. Il giudice nel frattempo è stato eletto al CSM, è diventato senatore, è andato in pensione...
L'Italia repubblicana sta attraversando uno dei momenti più diffìcili della sua storia. In questa situazione solo l'unità del paese e un forte senso di solidarietà sociale possono offrire speranza di un futuro accettabile per tutti. A infondere questa convinzione è la Costituzione, il patto su cui è fondata la nostra repubblica. Tuttavia in questi decenni la Costituzione non ha avuto vita facile. Nata in una stagione di generosi entusiasmi e alimentata dalla volontà di rompere con il passato, all'inizio apparve a molti una testa di ponte lanciata verso l'utopia: dunque per molti aspetti cruciali la sua attuazione fu assai lenta. Negli ultimi trent'anni è stata invece costantemente sotto attacco, per vari motivi: l'ansia di governabilità, le spinte federaliste o addirittura secessioniste, infine le ansie del "cittadino globale" e la debolezza degli stati di fronte a entità sovranazionali, quali la globalizzazione, la pressione della finanza e dei mercati, e la stessa Unione europea. Con competenza, lucidità e passione civile, Elvio Fassone ci trasmette il senso profondo della carta che fa di noi dei cittadini, e che per questo è definita "amica". Ne evidenzia la genesi e gli obiettivi, soppesa la validità dei suoi principi, racconta i tentativi di riforma - più o meno condivisibili - portati avanti in questi anni. Soprattutto, ci fa capire dove e come può essere aggiornata, per guidare l'Italia e gli italiani in un'epoca di grande cambiamento.
Ex magistrato di Cassazione, ex presidente della Corte di Assise di Torino ed ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura, Elvio Fassone è stato dieci anni in Senato.
A partire da piccoli aneddoti emblematici, da "disadattato alla politica", come ama definirsi, in questo libro ricostruisce dall'interno tessere eloquenti di una politica spesso dimentica di equità, senso delle istituzioni, etica, spirito di servizio e competenza.
Vengono così alla luce le vere regole del gioco, dall’impreparazione, la faziosità e la mentalità predatoria ai conflitti con la magistratura e ai tentativi di fare del Parlamento un organo di ratifica dell’esecutivo.
È possibile far andare le cose diversamente? E se è possibile, perché non accade?
Elvio Fassone
Perché?
Nulla di scientifico, nulla di impegnativo, in queste poche pagine. Solo il tentativo di rispondere con semplicità alle domande dei semplici: «Ma come è potuto capitare?». All’altra domanda: «E adesso che cosa fare?» la risposta è incerta, ma la intuiamo: «Fare il contrario di quel che si è fatto sino ad ora». Regole dove c’era sregolatezza. Redistribuzione a rovescio, a carico di chi ha profittato. Solo che noi “piccoli” non abbiamo gli strumenti per attuarla. Gli strumenti li hanno i politici: i quali – è stato detto – «sanno benissimo che cosa andrebbe fatto; ma non sanno come fare a farsi rieleggere qualora lo facessero». Allora?
Elvio Fassone nato a Torino nel 1938, ha svolto il compito di magistrato a Pinerolo ed a Torino, dove ha rivestito l’incarico di consigliere della Corte d’Appello, e poi di presidente della Corte d’Assise. È stato membro del Consiglio superiore della magistratura negli anni 1990-1994. È stato eletto al Senato della Repubblica nel 1996 e nel 2001. Ivi ha fatto parte della Commissione Giustizia e, dal 2001 al 2006, è stato vice-presidente della Giunta per le immunità parlamentari. È autore di circa 90 pubblicazioni in materia processual-penale e penitenziaria, edite da Il Mulino, CEDAM, Giuffrè ed altre editrici. Ha collaborato e collabora con le principali riviste specializzate del settore.