1984. È l'anno di Bettino Craxi, quando il primo governo a guida socialista raggiunge i maggiori successi. Sandro Pertini, un altro socialista, è il Presidente della Repubblica. È anche l'anno della morte di Enrico Berlinguer, il popolarissimo segretario del più grande partito della sinistra. A Milano un sindaco del Psi amministra la città in alleanza con i cugini comunisti, ed è questa una situazione delicata viste le tensioni tra i due partiti, del tutto divisi riguardo alla figura di Craxi: se la giunta proseguisse spedita nel suo cammino sarebbe una conferma dell'egemonia di quest'ultimo, se invece cadesse sarebbe una sconfitta e l'approfondimento della frattura tra due sinistre. In questo quadro generale, l'omicidio in città di un importante funzionario all'urbanistica del Comune, iscritto al Pci, sembra fatto apposta per sfasciare un precario equilibrio. A cercare di capirci qualcosa è chiamato Mario Cavenaghi, responsabile di quella specie di intelligence interna che era la Commissione dei probiviri del partito di via delle Botteghe Oscure. Un'inchiesta che conduce un po' di malavoglia, perché è un uomo in crisi, ma che lo porta a scandagliare la città di allora, a cercare la polvere sotto il tappeto: i nuovi impresari edili tra affarismo e innovazione; il mondo dei grandi studi di progettazione, le future archistar; la rivoluzione delle televisioni, nuovo potere che sconvolge e crea; la vita, tra passione e cinismo, dei partiti; la mondanità rampante; e, dietro tutto, l'affanno dei ceti legati alla vecchia industria tradizionale in crisi. Muovendosi veloce per i luoghi dove ferve più intensità, Mario riesce a scoprire cosa cova dietro quell'omicidio. E dal suo punto di osservazione, per così dire intimo, non può fare a meno di intravedere il lento tramonto della Prima Repubblica. Questo è un romanzo fortemente politico impiantato su una struttura di giallo, cosa come il primo di Lodovico Festa, "La provvidenza rossa". L'effetto realistico che dà, come un osservatore nascosto dentro le stanze che contano, si fonda sul fatto che l'autore fu uno dei protagonisti di quegli ambienti e situazioni. Lo scopo è quello di restituire ai lettori lo spirito del tempo. E in esso testimoniare, nella finzione romanzesca, soprattutto di un trauma fondamentale della storia d'Italia: la decadenza piena di pathos di un modo di essere, dell'essenza, oltre che civile, umana di una grande fetta d'italiani. Quella parte che si riconosceva nel Partito comunista.
Questo romanzo è un mistery, sono inventati il crimine che scatena la vicenda, la trama, e la soluzione finale, e sono fittizi i protagonisti; ma è pure un pezzo importante di memoria, come forse sarebbe difficile riportare con la stessa evidenza in un saggio di storia. La memoria di cosa fu un grande partito, di come funzionava la mente di dirigenti e militanti, di come si muoveva l'invisibile macchina del potere e del contropotere in una grande metropoli negli anni fine Settanta, poco prima che l'omicidio Moro scompigliasse la storia d'Italia. Milano, autunno 1977, zona Sempione. Una sventagliata di mitra ha ucciso una giovane fioraia. Accanto al corpo, nel chiosco di via Procaccini, una copia dell'"Unità", perché Bruna Calchi, la vittima, era un'iscritta al Pci, dirigente della sezione e del circolo Arci, dove si occupava di teatro e di diritti gay; bella ragazza, molto conosciuta anche per la sua spigliata esuberanza. L'inchiesta poliziesca parte con tutta la prudenza del caso delicato, affidata a un giovane funzionario, moderno e progressista ma capace di stare al mondo; e subito incorre in un primo mistero: l'arma del crimine, una Maschinenpistole, i famosi Mp 40 in uso alla Wehrmacht, riemersa chissà come dalla Seconda guerra mondiale. Contemporaneamente, "per evitare eventuali provocazioni e trappole", muove la controinchiesta del Pci. Se ne occupa il vecchio Peppe Dondi con il suo vice ingegner Cavenaghi...
Pagliacci e forcaioli, innovatori che non innovano nulla, élite senza patriottismo, un popolo senza speranza, vecchie cariatidi in pista da decine di anni e nuove speranze con poca cultura, tecnici stimati solo all'estero, medicine inutili somministrate agli italiani solo per rabbonire l'Europa... Sono alcuni dei temi trattati da Lodovico Festa e Giulio Sapelli in questo dialogo paradossale, ma niente affatto gratuito, il cui filo conduttore è quanto l'Italia di ieri, quella dei Medici e dei papi rinascimentali, assomigli a quella di oggi, da Tangentopoli a Renzi. Sicuramente è una forzatura estrema comparare il Moro a Cuccia, Giulio II a Napolitano o Carlo V alla Merkel, ma lo è un po' meno commentare i continui sacchi di Roma e l'accettazione passiva del dominio straniero. Per gli autori, la realtà attuale è così disgregata che il paradosso diventa strumento per guardare più a fondo la situazione italiana: a quanto da lontano vengano questioni e tendenze essenziali per la nostra società, e quanto siano ancora valide le riflessioni (contrapposte) di grandi intellettuali come Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini. L'interrogativo finale riguarda tutti: oggi, in Italia, si può sperare in un nuovo Principe (cioè un Nuovo Stato) o si deve, invece, accettare l'opinione antica quanto corrente del: "Franza o Spagna purché se magna"?
Lo storico dell'arte Flavio Caroli e il giornalista Lodovico Festa ripercorrono lo sviluppo dell'arte occidentale nelle sue peculiarità, proponendo stimoli e spunti di discussione in un dialogo aperto, non specialistico, ricco di racconti e aneddoti. L'osservatorio privilegiato della creatività artistica consente infatti di sondare nel profondo la complessità del mondo contemporaneo. Attraverso gli innumerevoli volti dell'arte, ecco allora profilarsi i lineamenti della civiltà occidentale, fino a delineare lo spirito controverso del nostro tempo in pagine che entrano nel corpo vivo del mercato dell'arte, dei rapporti fra pittura e cinema e delle ultime avanguardie.