Che cos'era l'etichetta alla corte di Francia? A cosa serviva veramente? E per quale inclinazione sociale potenti signori, grandi dame, sottili politici, raffinati intellettuali si sottomettevano volenterosi alla sua schiavitù? Fu disciplinamento di una società che diveniva moderna o capriccio di monarchi assoluti? Un catalogo - e quanto sorprendentemente minuzioso, futile e influente nella storia, ci svela questo libro - di precedenze, di modi di portare uno strascico, sorpassare una porta. E chi ne aveva il diritto e in quale occasione. E se si poteva ereditare. E le cifre incredibili alle quali acquistarlo. I conflitti e i paradossi dei modi cortesi. Il nascere e il morire di una moda. Le offese e le frustrazioni per il privilegio di porgere una salvietta. E infiniti altri microscopici gesti di ogni momento ossessivamente disciplinati. Lo raccontano, con serissima adesione, le molte memorie di cortigiani contemporanei, e imponenti su tutte quelle sterminate e magnifiche del duca di Saint-Simon. "I memorialisti dell'epoca sono dei narratori, quindi raccontano l'etichetta solo quando viene disattesa, e principalmente se dà luogo ad avventure nefaste, comiche o bislacche". Daria Galateria li conosce tutti, da sempre li studia e li commenta; e qui può offrire la completa ricostruzione, dall'A alla Z, di tutte le voci delle buone maniere a Versailles.
Sono stati molti gli scrittori in galera, finiti dentro a causa dei motivi più diversi - dalle rapine a mano armata all'assassinio della moglie (delitto, questo, molto diffuso tra i letterati, da Verlaine a Burroughs a Norman Mailer a Fallada). Addirittura tra galera e scrittura sembra correre una affinità: alcuni scrittori, come Jean Genet o Chester Himes, lo sono diventati dentro, altri, da Kleist a Giuseppe Berto, vi hanno potuto rinnovare ispirazioni e giustificazioni a creare, quasi tutti hanno trovato il modo di correggere la propria linea di scrittura. E come se dietro le sbarre i loro pensieri vietati trovassero nuove e più efficaci fantasie ("vi siete sbagliati - diceva Sade ai carcerieri -avete acceso la mia testa, mi avete spinto a creare fantasmi che dovrò realizzare"). Perché? Secondo quanto mostra l'autrice di questo erudito e divertente pellegrinare di cella di scrittore in cella di scrittore (in ordine cronologico, da quelle di Voltaire e Diderot, a quelle di Adriano Sofri e Goliarda Sapienza: e sono celle che coprono tutta la scala reclusoria, dalle galanti e libertine, tali quelle settecentesche, alle celle plumbee, quali quelle dei lager e dei gulag), è perché l'immaginazione, costretta, cresce e soprattutto cresce il desiderio. Le scrittrici, in particolare, confessano tutte che in carcere, affrancate dall'obbligo di accudire gli altri, sperimentano un'insolita forma di libertà: possono occuparsi di se stesse.
Alla ricerca dell'agiatezza, o magari solo per sopravvivere, gli scrittori si sono dedicati ai mestieri più vari, da saltimbanco a cercatore d'oro, da fornaio a industriale, da contrabbandiere d'oppio a fuochista in Cina: e poi piloti, tagliatori di teste, poliziotti, medici, doganieri, piazzisti di bigiotteria; tutti lavori che hanno finito per affacciarsi nella scrittura. Il mestiere più prestigioso lo ha praticato Malraux, che è stato ministro; Jack London ha collezionato infiniti mestieri, fu per esempio fiociniere su baleniere dell'Artico; Colette aprì nel 1932 un istituto di bellezza; George Orwell dalla Polizia Imperiale in Birmania passò a miserrime condizioni, lavapiatti e barbone; pensava di conoscere così il mondo e guadagnarsi la condizione di letterato. Gorkij fece mille cose: come sguattero sul Volga conobbe il cuoco che gli fece conoscere i libri. Saint-Exupéry pensava che il suo vero mestiere fosse l'aviazione. Italo Svevo, per fare il grande industriale, smise di scrivere: gli bastava una riga per renderlo inetto al lavoro pratico per una settimana.