Sono molti, e variegati, i temi affrontati in questa straordinaria raccolta di saggi: dalla stregoneria al divieto di conoscere ciò che sta in alto, inteso letteralmente e metaforicamente; dalle pitture erotiche di Tiziano all'«uomo dei lupi» di Freud, interpretato come un lupo mannaro mancato; da Aby Warburg e i suoi continuatori all'intreccio tra riflessioni sul mito e ideologia nazista negli scritti di Georges Dumézil. Che cosa lega ricerche così distanti tra loro? La prefazione alla prima edizione insisteva sulla morfologia, usata «come una sonda, per scandagliare uno strato inattingibile agli strumenti consueti della conoscenza storica». E alla morfologia si ritorna, in una prospettiva diversa, negli scritti inediti che ora si aggiungono, imperniati sulla nozione di «testo invisibile» (e perciò riproducibile) che era stata proposta in Spie. Radici di un paradigma indiziario. In questa nuova edizione Ginzburg rilegge il libro anche a partire da un tema fondamentale che, almeno in apparenza, in Spie mancava: il rapporto tra indizi e prove. È lecito supporre (come aveva fatto, in passato, lo stesso autore) che la ricchezza cognitiva degli indizi avesse indotto a trascurare l'importanza delle prove? Un dubbio da avvocato del diavolo, che ha portato a riesaminare da un'angolazione inattesa la sequenza che, partendo dalla triade Morelli-Freud-Sherlock Holmes, proietta il lettore da un lato verso i cacciatori del Neolitico, dall'altro verso il presente. E un invito a trasformarsi in cacciatori di indizi, per cercare di rispondere a questa e ad altre domande.
Di fronte alla varietà dei temi discussi in questi saggi ci si potrà chiedere se esista un filo che li leghi. Il titolo del libro ne offre uno. «La lettera uccide, lo spirito dà vita» disse Paolo di Tarso, contrapponendo alla legge giudaica in cui era nato la nuova fede - il cristianesimo - di cui fu il fondatore. «Uccide», «dà vita» sono metafore, che non vanno prese alla lettera. Ad esse si può rispondere con un'altra metafora: la lettera uccide chi la ignora. Dall'analisi ravvicinata di casi specifici emerge una versione della microstoria, qui presentata in una prospettiva inedita. Al centro di questi casi ci sono personaggi famosi (Machiavelli, Michelangelo, Montaigne) o semisconosciuti (Jean-Pierre Purry, La C.***); un testo o un'immagine; un tema (la rivelazione) o una lettera dell'alfabeto. E un elemento ricorrente: la riflessione sul metodo, sugli intrecci tra «caso» e «caso» - tra studi di caso ed elementi casuali, spesso prodotti deliberatamente. «Il libro di cui hai bisogno si trova accanto a quello che cerchi»: chi legge potrà scoprire i risultati, spesso imprevedibili, di questa affermazione di Aby Warburg.
Nel leggere le testimonianze di questi contadini friulani, uomini e donne, vissuti tra '500 e '600, si è afferrati, come lo furono gli inquisitori, dallo stupore che si prova di fronte a qualcosa di assolutamente inaspettato. «Di notte, in casa mia, et poteva essere quattro hore di notte sul primo somno» racconta il benandante Paolo Gasparutto «mi apparse un angelo tutto tutto d'oro, come quelli delli altari, et mi chiamò, et lo spirito andò fuori ... Egli mi chiamò per nome dicendo: "Paulo, ti mandarò un benandante, et ti bisogna andare a combattere per le biade" ... Io gli resposi: "Io andarò et son obediente"». Spinti dal destino perché nati con la camicia - cioè involti nel cencio amniotico - i benandanti combattevano in spirito, tre o quattro volte all'anno, armati di mazze di finocchio, contro gli stregoni armati di canne di sorgo, per assicurare l'abbondanza dei raccolti. Gli inquisitori si convinsero che dietro questi racconti si nascondeva il sabba diabolico: i benandanti non erano nemici di streghe e stregoni, come affermavano, bensì streghe e stregoni essi stessi. Dalle voci di Anna la Rossa, di Olivo Caldo, di Michele Soppe e di tanti altri, pur filtrate dai notai dell'Inquisizione, emerge uno strato profondo di credenze contadine, altrove cancellate. Oggi i benandanti, per tanto tempo dimenticati, viaggiano in spirito per il mondo: dall'Europa, alle Americhe, alla Cina.
Il 12 dicembre 1969 scoppia la bomba di piazza Fontana a Milano. Il ferroviere anarchico Pino Pinelli è convocato in Questura per accertamenti e dopo tre notti il suo corpo vola dalla finestra dell'ufficio del commissario Luigi Calabresi, contro cui Lotta Continua inizia una violenta campagna. Nel 1972 Calabresi viene ucciso a colpi di pistola sotto casa. Sedici anni dopo un ex operaio della Fiat, già militante di Lotta Continua, Leonardo Marino, si costituisce e confessa al sostituto procuratore Ferdinando Pomarici di aver preso parte all'omicidio Calabresi chiamando come corresponsabili Giorgio Pietrostefani, Adriano Sofri e, come esecutore materiale, Ovidio Bompressi. Inizia così l'odissea dei processi.
Pubblicato per la prima volta nel 1976, «Il formaggio e i vermi» ritorna con una postfazione. Nel frattempo, tradotta in ventisei lingue, la vicenda del mugnaio friulano Domenico Scandella detto Menocchio, messo a morte dall'Inquisizione alla fine del Cinquecento, ha fatto il giro del mondo, mostrando come sia possibile, attraverso gli archivi inquisitoriali, cogliere le voci di individui che spesso non compaiono, o compaiono solo in maniera indiretta, nella documentazione storica: dai contadini alle donne. Il mugnaio Menocchio era senza dubbio una figura straordinaria, percepita come anomala anche dai suoi compaesani; l'ampiezza delle sue letture, la ricchezza delle sue reazioni ai libri, l'audacia delle sue idee non finiscono di stupire. Ma anche un caso eccezionale (qui sta la scommessa del libro) può gettar luce su problemi di vaste dimensioni: dalla sfida alle autorità in una società preindustriale all'intreccio fra cultura orale e cultura scritta. Come chiarisce la nuova postfazione, «Il formaggio e i vermi» è stato letto retrospettivamente come un esempio di microstoria. Ma lo scopo di quest'esperimento di scrittura della storia era, ed è, quello di far arrivare al lettore la voce di Menocchio: «Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli...».
Machiavelli, Pascal: un accostamento inatteso, per più versi sorprendente. Machiavelli, frugando nella biblioteca di suo padre, scopre la casistica medievale e mette il rapporto tra la norma e l'eccezione al centro di un mondo inventato (la "Mandragola") e di quello in cui vive e agisce ("Il Principe"). Pascal, feroce avversario della casistica (soprattutto quella dei gesuiti), legge Machiavelli attraverso la lente di Galileo, e la realtà del potere attraverso Machiavelli. Un viaggio negli intrichi della lettura, sulle tracce di due lettori straordinari - e dei loro interlocutori, avversari, seguaci. Vi si affacciano personaggi famosi (Campanella, Galileo) visti dal loro censore, il domenicano Niccolò Riccardi, detto «Padre Mostro»; e personaggi meno noti, come Johann Ludwig Fabricius, al quale una lettura obliqua delle "Provinciali" di Pascal consente di proporre un'immagine inedita del «religiosissimo» Machiavelli. Un invito a leggere tra le righe, lentamente, testi cifrati, spesso criptici. Per anni Carlo Ginzburg ha lavorato su casi molto diversi tra loro, tutti però fortemente anomali. L'incontro con la casistica - ossia la tradizione, all'incrocio tra teologia e diritto, che riflette sulla tensione tra norma e anomalia, a partire da casi specifici - era forse inevitabile. Un tema insieme lontanissimo e vicino: ferita a morte da Pascal e resuscitata dalla bioetica, la casistica non smette di interrogarci, nei suoi risvolti tragici o grotteschi.
Voli notturni verso luoghi solitari, rapporti sessuali con il demonio, orge e infanticidi, profanazione della croce e dei sacramenti: per alcuni secoli, tra Quattro e Settecento, l'immagine del sabba affiorò da un capo all'altro d'Europa (e poi in altri continenti, nei paesi colonizzati dagli europei) descritta da donne e da uomini accusati di stregoneria, di fronte a tribunali laici ed ecclesiastici. Confessioni raramente spontanee, più spesso estorte dalla tortura e dalle sollecitazioni dei giudici: ma che cosa si nascondeva dietro l'immagine del sabba?
Questo libro ricostruisce una traiettoria secolare in cui l'ossessione di un complotto contro la società, attribuito a gruppi via via diversi (lebbrosi, ebrei, musulmani, eretici e streghe), s'intrecciò a credenze popolari a sfondo sciamanico. Il complotto immaginario prese forma in un territorio limitato, dalla Francia all'arco alpino. L'indagine sullo strato sciamanico trascina chi legge in un immenso spazio eurasiatico, popolato da uomini e da donne, da personaggi del mito e della fiaba. Benandanti friulani, lupi mannari baltici, sciamani siberiani, zoppi e nati con la camicia, divinità notturne signore degli animali, Edipo e Cenerentola, segnano le tappe di un viaggio che si chiude affacciandosi sulle radici antropologiche del raccontare.
Questo libro esplora il mutevole rapporto tra verità storica, finzione e menzogna attraverso una serie di casi. Contro la tendenza dello scetticismo postmoderno a sfumare il confine tra narrazioni di finzione e narrazioni storiche in nome dell'elemento costruttivo che le accomuna, il rapporto tra le une e le altre viene visto in questo libro come una contesa per la rappresentazione della realtà. Scavando dentro i testi, contro le intenzioni di chi li ha prodotti, si possono far emergere voci incontrollate: per esempio quelle delle donne o degli uomini che, nei processi di stregoneria, si sottraevano agli stereotipi suggeriti dai giudici. Nei romanzi medioevali si possono rintracciare testimonianze storiche involontarie su usi o costumi, isolando all'interno della finzione frammenti di verità: una scoperta che oggi ci sembra quasi banale, ma che aveva un suono paradossale quando verso la metà del Seicento, a Parigi, venne formulata per la prima volta esplicitamente. Realtà, immaginazione, falsificazione si contrappongono, s'intrecciano, si alimentano a vicenda. Gli storici, scriveva Aristotele, parlano di quello che è stato (del vero), i poeti di quello che avrebbe potuto essere (del possibile). Ma il vero è il punto d'arrivo, non un punto di partenza. Gli storici (e, in modo diverso, i poeti) fanno per mestiere qualcosa che è parte della vita di tutti. Districare l'intreccio di vero, finto e falso che è la trama del nostro stare al mondo.
Siamo circondati, sommersi dalle immagini. Dagli schermi dei computer e degli apparecchi televisivi, dai muri delle strade, dalle pagine dei giornali, immagini d'ogni genere ci seducono, ci impartiscono ordini (compra!), ci spaventano, ci abbagliano. Questo libro ci invita a guardare le immagini lentamente, attraverso alcuni esempi, notissimi e meno noti: Guernica, il manifesto di Lord Kitchener con il dito puntato verso chi guarda, il Marat di David, il frontespizio del Leviatano di Hobbes, una coppa d'argento dorato con scene della conquista del Nuovo Mondo. Immagini politiche? Sì, perché ogni immagine è, in un certo senso, politica: uno strumento di potere. Siamo soggiogati da menzogne di cui noi stessi siamo gli autori, ha scritto Tacito e sono parole indimenticabili. È possibile infrangere questo rapporto?
Le discussioni sul metodo storico toccano oggi temi non limitati ai soli addetti ai lavori. La riduzione della storiografia a retorica, alimentata dallo scetticismo postmoderno, si è incontrata con le posizioni politiche dei movimenti basati su identità etniche o di genere. Chi ha rivendicato la parzialità della conoscenza storica lo ha fatto richiamandosi all'analisi della conoscenza in termini di potere proposta da Foucault, oppure all'idea che la versione del passato destinata a prevalere sia quella retoricamente più efficace. Entrambe le prospettive derivano da Nietzsche: più precisamente, sostiene Carlo Ginzburg, dalla lettura, elaborata negli anni settanta, di un inedito giovanile di Nietzsche in cui la nozione di verità era ricondotta a una dimensione retorica. Alla retorica di Nietzsche, riecheggiata dai suoi epigoni odierni, Ginzburg contrappone un'altra retorica, quella fondata da Aristotele e trasmessa da Quintiliano a Lorenzo Valla. Al centro di questa tradizione c'è il nesso tra retorica e prova, qui illustrato attraverso l'analisi di una pagina poco nota e di una pagina famosa: la denuncia del colonialismo europeo che un gesuita francese del Settecento attribuì al capo di una rivolta indigena, e lo spazio bianco dell'educazione sentimentale in cui Proust vide il culmine dell'intera opera di Flaubert.