Fu senza il sostegno di governi, società geografiche o altre istituzioni, senza un vero progetto e dovendo contare esclusivamente sulle proprie forze, il proprio coraggio e la propria capacità di arrangiarsi, che gli esploratori italiani dell'Ottocento affrontarono le insidie di terre e mari misteriosi. Questo libro è il ritratto di sei di questi spiriti liberi e ribelli, molto diversi tra di loro ma uniti dalla caparbietà di raggiungere comunque i propri obiettivi a dispetto di ogni regola e disciplina. Ecco Giacomo Bove che, dopo la spedizione artica del "Passaggio a Nord-Est", cerca nei viaggi in Sudamerica e in Africa un impossibile rimedio alle pene della propria anima inquieta. Ecco Giovanni Battista Cerruti che grazie alla propria affabilità nel trattare con una tribù di avvelenatori, ne diviene re. Augusto Franzoj, che affronta l'altopiano etiopico da solo per andare a recuperare le ossa dell'esploratore Chiarini ucciso dalla regina di Ghera. Il frate Guglielmo Massaja che diventa mago guaritore e consigliere personale di Menelik. E c'è anche Giovanni Miani, figlio di una serva e del conte veneziano Bragadin, che dopo aver dilapidato la sua cospicua eredità parte per l'Africa alla scoperta delle sorgenti del Nilo. Ecco infine Pietro Savorgnan di Brazzà, nobile friulano che è costretto a farsi francese per poter coronare il sogno di diventare esploratore e, con le sostanze della famiglia, fonda la colonia del Congo-Brazzaville.
«Staccarmi dalle mie fantasie vorrebbe dire togliermi la ragione logica dell’esistenza» confesserà Emilio Salgari (Verona 1862 - Torino 1911), il più grande scrittore italiano di romanzi d’avventura, verso la fine della sua inquieta e tribolata esistenza. Ma quale crudele avversità avrebbe potuto staccarlo dalle sue fantasie, vale a dire dai suoi eroi e dalle loro straordinarie avventure? Non un solo evento ma la concomitanza di più eventi: non la nevrastenia che liquidava come «la solita malattia degli scrittori» di cui dichiarava di essere preda, ma la paura di diventare cieco, una sciagura letale per «un forzato della penna», e le condizioni psichiche della moglie Aida che di lì a poco sarebbe stata rinchiusa in manicomio, lasciandolo da solo a lottare contro una «semi-miseria» che imputava ai suoi editori, a governare una quotidianità fatta di magri, se non disperati, bilanci da far quadrare e di figli difficili ai quali badare: lui che fino a quel momento, più per predestinazione che per scelta, era stato estraneo alla realtà avendo bazzicato, nella malfamata taverna dell’immaginazione, pirati di tutte le risme, rajah, almee, capitani coraggiosi e cavalieri delle praterie. Aida era stata costantemente di guardia alla linea dell’orizzonte affinché il suo «capitano» potesse veleggiarvi oltre, tra tempeste immani ma docili, senza essere disturbato dalle tempeste indomabili dell’esistenza reale; era stata il sipario tirato tra due mondi incomunicabili. La sua malattia ha fatto sì che questi due mondi si scontrassero come violentissimi temporali estivi decretando la fine del più fragile, quello fittizio, fatto di eroi e fantasmi.
Questo libro è il racconto appassionante e documentato del travaglio di uno spirito inquieto e tragico, di uno di quei predestinati all’errare randagio nei territori sconfinati della fantasia, che si proiettava nei suoi eroi fino ad abdicare alla propria identità di piccolo uomo di provincia talora soggetto allo scherno di chi lo apostrofava come visionario e mentitore. Non poteva essere un visionario chi aveva scambiato la fantasia con la realtà, e non poteva essere un bugiardo chi raccontava l’unico mondo in cui sapeva vivere e in cui i suoi falsi gradi di capitano di gran cabotaggio rilucevano come stelle.