"Poesia, entusiasmo e adrenalina": è questa la montagna raccontata da Carlo Grande. È lo scenario della Sainte-Victoire che rapisce Cézanne, o la luce dolce sulle vigne descritta da Pavese. È un possibile antidoto al rituale moderno della velocità, "un silenzio di voci che bisbigliano" e che svelano una natura archetipica e indicibile. Ma sono anche i luoghi di una fatica quotidiana e paziente che si perde nel tempo, forre oscure e minacciose come le Forche Caudine o la gola di Roncisvalle, vette himalayane che attirano l'uomo nella "zona della morte". Sono le montagne da sempre teatro di lotte e invasioni: da Annibale che varcò le Alpi allo sterminio dei catari, fino alla Resistenza ai nazifascismi e alla pacifica opposizione alle mostruose gallerie della TAV. In un sottile gioco tra parola e allusione, scrittura e immaginazione, Grande ci prende per mano e, in compagnia di Herzog, Buzzati, Thoreau, Mann, Rigoni Stern, ci invita a riscoprire il gusto dell'andare a piedi e del "salire", accettandone i rischi e le avventure: "Per non cancellare il proprio paesaggio interiore e perdere così la gioia di vivere".
Un'avventura di umano coraggio all'interno di una cornice naturale e selvaggia. Il protagonista, Pribaz, è un pilota da guerra italiano fatto prigioniero dalle truppe britanniche durante la Seconda guerra mondiale e deportato in un campo di prigionia ai piedi dell'Himalaya. Costretto a far fronte alla durezza di un'esistenza che pare ormai senza scopo, giunto allo stremo delle forze dopo un fallito tentativo di fuga, Pribaz rinnega il fascismo e ottiene il permesso di compiere escursioni con i compagni di prigionia. Compirà una lunga marcia verso il lago Tso Moriri attraverso una terra popolata da pastori, orsi e carovane. Una marcia che sancirà il suo riscatto.