E' possibile parlare con leggerezza e humour intorono al più grave e serio degli argomenti: la morte? E' quanto spesso ha tentato di fare Vladimir Jankélévitch nelle sue opere. Invece di proporre una nuova teoria "sulla morte", l'autore invita piuttosto a guardare alla vita dal difficile margine che separa l'esistenza dal nulla. Ne deriva un punto di vista sul mondo e sulle cose che, alleggerito da qualsiasi dogmatismo, affronta ogni questione con il sorridente beneficio dell'ironia.
In una stagione che tende a tradurre il crollo dei principi morali in un facile relativismo, il pensiero di Vladimir Jankélévitch costituisce il più influente e rigoroso tentativo filosofico di imboccare una strada diversa. In questo libro, in cui la sua cinquantennale ricerca raggiunge uno dei vertici, il filosofo decostruisce, con straordinario acume analitico e tensione etica, la nozione di purezza nella sua dialettica complessa con l'impurità. Contro tutte le metafisiche, antiche e moderne, che hanno cercato di immunizzare l'esperienza umana, purificandola dalla sua stessa costitutiva molteplicità, Jankélévitch riconosce nell'infinita alterazione della vita l'unica fonte di senso per l'azione umana. In tal modo, in un paradossale elogio dell'equivoco, l'impurità diventa la sede indepassabile di una purezza non metafisicamente presupposta, ma calibrata sull'attitudine intransigente a discernere in ogni singola occasione il bene dal male.
La traduzione italiana del lungo saggio, scritto nel 1925 e dedicato da Vladimir Jankélévitch a Georg Simmel, mette finalmente a disposizione dei lettori un testo che, come si augurava l'autore negli ultimi anni della sua vita, invita a rileggere un filosofo che in vari periodi è stato "di moda" (anche in Italia), ma attende ancora di essere pienamente riconosciuto. Il giovane Jankélévitch offre una compiuta introduzione al pensiero simmeliano nel suo complesso. La filosofia della vita è il centro di questa penetrante e illuminante lettura, che affronta le questioni sempre attuali del rapporto dell'individuo con il relativo e con l'assoluto. Il saggio può essere considerato un modello di dialogo tra due filosofi, altrettanto significativo per illustrare gli inizi del percorso di Jankélévitch, quanto per rilanciare la forza del pensiero simmeliano.
Mai come nelle interviste da cui nasce questo testo, Vladimir Jankélévitch ci conduce al cuore segreto del suo pensiero. Articolato, come un vero tessuto vivente, lungo un percorso che trascorre dalla filosofia morale alla riflessione politica, dall'analisi letteraria all'esperienza musicale, esso trova il proprio epicentro in un'interrogazione intensa e radicale della pratica quotidiana. Che significato conferire allo scorrere, apparentemente insensato, dei giorni? Come rispondere delle proprie azioni in un mondo caratterizzato dalla sconnessione dei valori e dall'assenza di fondamenti? E che rapporto instituire con quelle degli altri, quando esse, come nella stagione nazista - vissuta in prima persona dall'autore - assumono il volto insostenibile della menzogna e della violenza? La risposta di Jankélévitch si situa nel difficile punto d'incrocio fra irreversibilità indelebile del passato e contingenza indeterminata dell'avvenire. Come in uno spartito musicale, solo la capacità di seguire il ritmo dell'esistenza nel suo battito alternante consente di stringere in uno stesso nodo rigore e duttilità, responsabilità e intelligenza, profondità e leggerezza.
Quando, alla fine degli anni Cinquanta, in una temperie storica ancora segnata dai terribili postumi della guerra, Vladimir Jankélévitch dette alle stampe Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, non furono in molti a cogliere la straordinaria forza d'impatto di un testo volutamente inattuale, perché diversamente orientato rispetto alle coordinate consolidate della riflessione filosofica. In un momento in cui gli astri di Hegel, Husserl e Heidegger rifulgevano nel firmamento della filosofia europea, Jankélévitch apriva un varco, inatteso e profondo, verso un altro orizzonte di pensiero. Nozioni apparentemente fuori del tempo come quelle di «grazia», «innocenza», «semplicità», o riferimenti desueti a Plotino, Juan de la Cruz, Graciàn o Brémond, restituiscono solo in parte la direzione di questo sguardo sagittale che taglia, con effetti ancora non del tutto sondati, il campo del sapere contemporaneo. Lontano dalle ultime filosofie della storia o dai nuovi gerghi dell'autenticità che in quella stagione ancora tenevano il campo, Jankélévitch cerca nel flusso dell'esperienza vivente il significato, e anche il mistero impalpabile, di un'esistenza esposta all'assoluta assenza di fondamenti, ma proprio perciò fermamente tenuta a un agire tanto più responsabile e vigile. Introduzione di Enrica Lisciani Petrini.
Cos'è la morte - la morte di tutti e di ciascuno, la morte di sempre e quella marcata dai segni inquietanti del nostro tempo? Come penetrare in un evento tanto decisivo da incidere in profondo la nostra esistenza eppure tanto opaco da mettere in scacco ogni sapere volto a rappresentarlo? Sono queste le domande, brucianti ed estreme, che alla fine degli anni Cinquanta, a pochi anni dalla più grande apocalisse dell'epoca moderna, si poneva Vladimir Jankélévitch in un libro che giustamente Lévinas ebbe a definire "sconvolgente". Sconvolgente per la radicalità con cui egli decostruisce tutti i dispositivi immunitari elaborati dal sapere occidentale nei confronti dell'Irriducibile; ma anche per l'acutezza di uno sguardo, affilato e obliquo, che taglia in maniera trasversale le grandi interrogazioni sulla morte, all'epoca affrontate da Heidegger e da Freud, da Blanchot e da Foucault, ma già prima da scrittori come Tolstoj e Rilke. All'interno di un grande scenario teorico, che spazia dall'antichità ai nostri giorni, la riflessione jankélévitchiana rivela una sorprendente attualità.
Jankélévitch conferma in questo "Corso" la fecondità di un pensiero che parla di morale senza cadere nel moralismo, scava nei concetti evitando il concettualismo e coniuga il dovere con l'amore, muovendo dall'importanza che l'intenzione e la volontà hanno nell'esperienza morale. Né Husserl né Heidegger ma Pascal e Tolstoj sono i riferimenti dell'autore, filosofo laico ma attento alla lezione dei mistici, oltre che a quella dei classici (Platone, Aristotele, Agostino). Queste lezioni sono esemplarmente indicative della ricchezza spirituale che la filosofia può dare all'individuo.
La questione del male come assurdità e come scandalo si intreccia in questo breve saggio con altri temi, come la menzogna, la morte, il perdono, le virtù, la volontà di volere. La riflessione sul male, nozione negativa per definizione, diviene il prototipo di un pensiero che esplora ciò che non è direttamente afferrabile, ma i cui echi possono essere percepiti situandosi in prossimità del sottile confine tra l'essere e la sua privazione.
GLI AUTORI
Jankélévitch è uno degli esponenti più originali del pensiero francese contemporaneo. Nelle edizioni Marietti sono già usciti Il non so che e il quasi niente e L'avventura, la gioia,la serietà. E' docente di filosofia morale alla Sorbona, è notevolmente apprezzato per la sua scrittura ironica e capace di alleggerire le problematiche che affiorano nell'affrontare discipline arcigne quale la filosofia morale. Nel 2000 è uscito in traduzione italiana La menzogna è malintesa che ha avuto un buon successo di vendita e in quell'occasione il Corriere della Sera dedicò un'anticipazione che occupò l'intera pagina di apertura di "Cultura e Spettacoli".
Possiamo davvero fare a meno del fragile equilibrio di convenzioni che rende più semplice la vita con gli altri? Menzogna e malinteso non costituiscono la trama sottile dell'agire comune? E' o non è forse per questo che la verità "protesta" nelle parole maldestre del gaffeur o nelle battute sprezzanti dell'enfant terrible? Scritte di getto queste pagine offrono una testimonianza di quella "fenomenologia del quotidiano" che attraversa l'intera opera di Jankélévitch. Dando dignità filosofica alla gaffe, al pudore e allo humour, l'autore invita ad avere il coraggio della parola "inopportuna" che interrompe il gioco di maschere in cui siamo immersi. Gesto etico per eccellenza, essa appare l'unica in grado di farci ritrovare l'innocenza perduta.