In oltre trent'anni di carriera, François Jullien ha esplorato le latitudini del pensiero cinese attraverso l'utilizzo di categorie necessariamente al di fuori dagli abituali percorsi analitici occidentali. In "Vivere di paesaggio", Jullien affronta la nozione "cinese" di paesaggio, un concetto che cessa qui il suo legame esclusivo con vista e spazio per aprirsi a un'estetica dello sguardo che si riconcilia con le sue proiezioni. Il paesaggio smette dunque di essere qualcosa da contemplare e si tramuta in uno scenario da vivere attivamente come composizione di opposti, come intreccio di correlazioni. Proprio i cinesi furono i primi a pensare il paesaggio, presentandolo come un campo costituito da tensioni tra ciò che è alto e ciò che è basso, ciò che è mobile e ciò che è immobile, ciò che si vede e ciò che si ascolta. L'opera di Jullien invita a calarsi in questo affascinante scenario dove dimensione percettiva e dimensione affettiva si confondono in un unico spirito.
Il nudo ha talmente ben attecchito nella cultura europea, da non riuscire a uscirne: in Occidente ha caratterizzato tutta l'arte, compresa la fotografia, ed è stato basilare per la formazione delle Belle Arti. La Chiesa è riuscita a rivestire il sesso ma ha mantenuto il nudo. C'è un vasto spazio culturale dove il nudo non è mai entrato, o è stato completamente ignorato, ed è la Cina. Un'assenza così radicale necessita uno studio approfondito, poiché rinvia a una "impossibilità".
Nel suo personale itinerario speculativo François Jullien alterna testi più lunghi e articolati a saggi brevi, intensi, privi di note e adatti anche a un pubblico di non specialisti in materia sinologica o filosofica. In questo scritto breve tocca la questione della presenza e della "vita a due", e del rischio che la presenza si assopisca e si banalizzi. Senza concentrarsi solo su un soggettivismo psicologico, Jullien rintraccia e inscrive quella faglia o cedimento all'interno dell'Essere stesso: la caduta nella monotonia di una presenza disattivata, smorzata, inerte non rappresenta semplicemente un rischio del soggetto; sprofondare nell'inerzia è una possibilità ontologica, è strutturale all'Essere. L'Altro assume allora un rilievo cruciale, perché è colui, o colei, che può riattivare la presenza e mantenerla viva - a patto di saperla accogliere, custodire e incentivare.
Essere o vivere: due grandi prospettive, due modi di abitare il mondo, di accostarsi agli uomini e agli esseri che lo popolano. L'Europa guarda il mondo nella prospettiva dell'Essere, la Cina nella prospettiva del vivere. L'Europa vede cose, la Cina eventi. L'Europa pensa per individui, la Cina per situazioni. Noi pensiamo ad andare al di là, loro si preoccupano di stare "tra". Noi crediamo nella nostra libertà, la riaffermiamo in un confronto accanito con il mondo, loro scommettono sulla disponibilità di un contesto, si dispongono ad accompagnarne le tante trasformazioni possibili. Con questo libro, vera e propria summa di un lavoro trentennale, François Jullien ci accompagna in un viaggio affascinante attraverso venti tappe, venti incontri, venti coppie concettuali che, nella loro dissonanza, riaprono i giochi nelle nostre tranquille abitudini di pensiero. Perché Jullien non mira tanto a comparare e a scegliere, o magari a integrare e ricomporre le differenze tra Oriente e Occidente; mira piuttosto a produrre uno scarto, ad aprire un varco nello spazio grigio del pensiero globalizzato, a interrogare l'Europa dal punto di vista della Cina e la Cina dal punto di vista dell'Europa. A fare dell'una un'occasione e una risorsa per l'altra.
"Chi non vorrebbe, nel tempo di una serata, entrare in un pensiero che è esterno al nostro, come quello cinese? Ma non vi si può accedere cercando di riassumerlo o tracciandone la storia: resteremmo sempre dipendenti dalle nostre prospettive, dai nostri concetti. Non lasceremmo davvero il nostro pensiero, quindi non potremmo entrare in un altro." Così inizia il libro di François Jullien, filosofo che da trent'anni studia il modo per entrare in un pensiero, quello cinese, che non è accessibile se non uscendo dalle nostre categorie. Questo libro rappresenta una sintesi e una sistemazione del suo percorso di ricerca e approda a un compito rivoluzionario: concepire una storia dell'accadere dello spirito che non dipende più solo dall'Europa. Se la filosofia occidentale ha esaurito la sua carica vitale, come spesso si dice, è giunto il momento di "aprirsi" a Oriente e accedere a un pensiero inesplorato che possa offrire nuovi concetti e nuove prospettive.
Disponibilità, allusività, sbieco, defissazione e trasformazione silenziosa: cinque concetti del pensiero cinese, qui "proposti" alla psicoanalisi in un'originale rilettura della pratica analitica che intende recuperarne aspetti (operazioni fondamentali che si svolgono in seduta) scarsamente teorizzati. Questo confronto con la cultura cinese - come nello stile di Jullien - ha senso perché si dimostra il solo capace di produrre quell'estraniamento che permette al pensiero psicoanalitico di scoprirsi nel proprio "impensato"; ne emergono quelle "opzioni a priori" che orientano, limitando, ogni prodotto della cultura occidentale e che la psicoanalisi può, a questo punto, trascendere, accedendo a spazi di cura finora non compiutamente esplorati.
Esistono persone, anche accoppiate o sposate, che non sono mai entrate in intimità. Hanno vissuto per anni l'una accanto all'altra ma non tra di loro: l'Altro è diventato un essere familiare ma non intimo. Dell'Altro sanno tutto, atteggiamenti, gesti, collere e irritazioni, e non possono neanche farne a meno, tanto ci sono abituate. Ma ciascuna è rimasta dalla sua parte: non si sono mai incontrate. Al percorso discreto dell'intimità, così diverso da quello frastornante dell'amore, rivolge qui la sua attenzione François Jullien, mobilitando Omero e sant'Agostino ma anche Stendhal e Simenon per dare forza alla sua posizione. Mentre l'amore, con le sue dichiarazioni e le sue furie, rischia continuamente l'impostura, l'intimità è lo spazio della nostra autenticità e permette di costruire un "noi" perenne: il più profondo di ciascuno non si rivela che grazie a una relazione, a un uscire da sé.
"Bello" è un termine che possiede un'ampia gamma di usi. Può esprimere ciò che riconosciamo piacevole ai sensi ("una bella canzone") o ciò che suscita ammirazione e soddisfazione ("una bella serata"). Come sostantivo, "il bello" designa invece il concetto astratto, la specificità stessa della bellezza. Se però andiamo oltre il senso comune occidentale, scopriamo che lo stesso non vale dappertutto. La cultura cinese, per esempio, non distingue fra l'attributo concreto e il valore astratto e, anzi, ha finito per importare la nostra idea di bello solo alla fine dell'Ottocento, proprio quando in Occidente se ne decretava la morte. Da questo decisivo scarto linguistico Jullien prende le mosse per condurre una raffinata riflessione sui limiti e sul valore relativo delle categorie di pensiero più radicate.
I cinesi, in politica e in poesia, privilegiano l'espressione allusiva, la formulazione involuta; al confronto diretto preferiscono la sottigliezza di un approccio obliquo. Piuttosto che considerare questa differenza in termini naturalistici o psicologici, Jullien ci mostra la logica di tale strategia del senso. Ma ci porta anche a riflettere su alcuni dei nostri "partiti presi" teorici: soprattutto su quello che pretende di considerare l'oggetto del discorso come il solo in grado di interpretare lo sdoppiamento della parola nella cosa e nell'idea. Nei testi della tradizione cinese scopriamo quindi un discorso dell'"indizio" che non punta alla generalità delle essenze, ma integra le prospettive semiotiche con continue variazioni di senso.
La Cina è vicina? Quanto? È soltanto un grande Paese che ci minaccia, o una nazione dalla lunga storia il cui modo di pensare può insegnarci qualcosa? Nella gerarchia disegnata da Platone al vertice di tutto c'è l'idea, poi viene la realtà e quindi le sue imitazioni, come quelle dell'arte e dell'immagine, che per Platone sono soltanto surrogati dell'idea. È un sapere che ha fondato l'Occidente e l'Europa. Ma il riferimento all'ideale può essere anche una distorsione della realtà. Da una trentina d'anni il filosofo Francois Jullien ha aperto il suo cantiere di lavoro con l'obiettivo di promuovere un "uso filosofico della Cina". Autonoma dalla civiltà ebraica e greca, estranea anche sotto il profilo linguistico all'Occidente, la Cina agisce nel pensiero di Jullien come mezzo per guardare da una certa distanza le nostre fonti culturali. E in riferimento all'ideale che la cultura europea ha prodotto un sapere che si pretende universale, e che si è espresso come scienza, grazie al supporto della matematica; e ha promosso la tensione verso un fine da realizzare, progetto di vita e/o programma politico. Ora, la Cina ci chiama a riflettere sulla possibilità di non lasciarsi prendere dal gioco dell'ideale: ha pensato la matematica in termini di utilità; ha pensato un mondo che si governa in virtù di una sua regolazione interna; non ha cercato una Legge trascendente a cui adeguare il comportamento che deve semplicemente mantenersi in sintonia con il processo del mondo.