«Il mare stava arretrando. Anziché sommergere la costa, onde alte come falesie si ritraevano impetuose verso il largo. Un deserto di basalto si estendeva fino all'orizzonte. Coni vulcanici scintillanti di nero affioravano dall'acqua, simili a immensi tumuli. Decine di migliaia di pesci che non erano stati risucchiati dalla marea si dibattevano sul fondale asciutto in un luccichio di squame. Su quella distesa di roccia nera giacevano sparpagliati scheletri bianchi che sembravano di squali o balene, relitti di navi, barre di ferro lucenti, tavole di legno avvolte in vele a brandelli. Il mare era scomparso alla vista. Non è più un'isola, pensavo contemplando l'orizzonte ». Un vasto cimitero sul mare. Migliaia di tronchi d'albero, neri e spogli come lapidi, su cui si posa una neve rada. E intanto la marea che sale, minacciando di inghiottire le tombe e spazzare via le ossa. Da anni questo sogno perseguita la protagonista Gyeongha che, dopo una serie di dolorose separazioni, si è rinchiusa in un volontario isolamento. Sarà il messaggio inatteso di un'amica a strapparla alla sua vita solitaria e alle immagini di quell'incubo: quando Inseon, bloccata in un letto di ospedale, la prega di recarsi sull'isola di Jeju per dare da bere al suo pappagallino che rischia di morire, Gyeong-ha si affretta a prendere il primo aereo per andare a salvarlo. A Jeju, però, la accoglie una terribile tempesta di neve e poi un sentiero nell'oscurità dove si perde, cade e si ferisce. È l'inizio di una discesa agli inferi, nel baratro di uno dei più atroci massacri che la Corea abbia conosciuto: trentamila civili uccisi, e molti altri imprigionati e torturati, tra la fine del 1948 e l'inizio del 1949. Una ferita mai sanata che continua a tormentare le due amiche, proprio come aveva tormentato la madre di In-seon, vittima diretta di quel crimine. Tre donne, unite dal filo invisibile della memoria, che con determinazione si rifiutano di dimenticare, di dire addio e troncare il legame con chi non c'è più. Con la sua scrittura al contempo lirica e implacabilmente precisa, fatta di « istanti congelati in volo che brillano come cristalli », Han Kang riesce a raccontare questa pagina buia della storia, non solo coreana, consegnando al lettore un romanzo doloroso, lucido e poetico - dove la frontiera tra sogno e realtà, tra visibile e invisibile sfuma fin quasi a svanire. Un romanzo che lei stessa ha definito « una candela accesa negli abissi dell'anima umana ». Apparso nel 2021, "Non dico addio" è l'ottavo romanzo di Han Kang, scrittrice sudcoreana nata nel 1970 e divenuta famosa dopo aver ottenuto nel 2016 il Man Booker International Prize per "La vegetariana" (Adelphi, 2016). Nel 2024 è stata insignita del Premio Nobel per la letteratura. Di lei Adelphi ha pubblicato anche "Atti umani" (2017), "Convalescenza" (2019) e "L'ora di greco" (2023).
In una Seoul rovente e febbrile, una donna vestita di nero cerca di recuperare la parola che ha perso in seguito a una serie di traumi. Le era già successo una prima volta, da adolescente, e allora era stato l'insolito suono di una parola francese a scardinare il silenzio. Ora, di fronte al riaffiorare di quel mutismo, si aggrappa alla radicale estraneità del greco di Platone nella speranza di riappropriarsi della sua voce. Nell'aula semideserta di un'accademia privata, il suo silenzio incontra lo sguardo velato dell'insegnante di greco, che sta perdendo la vista e che, emigrato in Germania da ragazzo e tornato a Seoul da qualche anno, sembra occupare uno spazio liminale fra le due lingue. Tra di loro nasce un'intimità intessuta di penombra e di perdita, grazie alla quale la donna riuscirà forse a ritornare in contatto con il mondo. Scritto dopo La vegetariana e definito dal la stessa autrice «quasi un suo lieto fine», L'ora di greco si insinua - avvolto in un bozzolo di apparente semplicità - nella mente del lettore, come un «assurdo indimostrabile», una voce limpida e familiare che arriva da un altro pianeta.
Una palestra comunale, decine di cadaveri che saturano l'aria di un "orribile tanfo putrido". Siamo a Gwangju, in Corea del Sud, nel maggio 1980: dopo il colpo di Stato di Chun Doo-hwan, in tutto il paese vige la legge marziale. Quando i militari hanno aperto il fuoco su un corteo di protesta è iniziata l'insurrezione, seguita da brutali rappresaglie; "Atti umani" è il coro polifonico dei vivi e dei morti di una carneficina mai veramente narrata in Occidente. Conosciamo il quindicenne Dong-ho, alla ricerca di un amico scomparso; Eun-sook, la redattrice che ha assaggiato il "rullo inchiostratore" della censura e i "sette schiaffi" di un interrogatorio; l'anonimo prigioniero che ha avuto la sfortuna di sopravvivere; la giovane operaia calpestata a sangue da un poliziotto in borghese. Dopo il massacro, ancora anni di carcere, sevizie, delazioni, dinieghi; al volgere del millennio stentate aperture, parziali ammissioni, tardive commemorazioni. Han Kang, con il terso, spietato lirismo della sua scrittura, scruta tante vite dilaniate, racconta oggi l'indicibile, le laceranti dissonanze di un passato che si voleva cancellato.
Una donna cerca risposta agli interrogativi che la morte della sorella ha lasciato insoluti: perché, senza un motivo apparente, aveva cominciato a detestarla? Perché, pur essendo in tutto più dotata, si sentiva inferiore a lei? Perché sembrava tenere la vita a distanza, "come se scansasse del cibo dall'odore nauseante"? E nel secondo pannello di questo dittico di racconti un'altra donna, per sfuggire a un'esistenza che la intossica, a poco a poco si trasforma in una pianta: la sua inquietudine si placa, il suo corpo sofferente fiorisce e dà frutti - prima di appassire, forse per sempre. Ci sembra di conoscerle, queste figure femminili che richiamano i motivi e l'aura della Vegetariana, ma non cessano di stupirci per la loro straniata singolarità. Creature dolenti, sedotte dal richiamo dell'autoannientamento come unica forma di difesa dalla violenza insita nel nutrirsi, nel sentire, nel vivere. "Presto, lo so, perderò anche la capacità di pensare, ma sto bene. È da tanto tempo ormai che sognavo questo, di poter vivere solo di vento, sole e acqua". Col suo tocco elusivo, la prosa scabra di Han Kang sfiora ancora una volta l'orrore senza spiegarlo e ci lascia, attoniti, a contemplare la disturbante malìa del rifiuto di sé.
«È tutt'altro che un'opera ascetica: è un romanzo pieno di sesso ai limiti del consenziente, di atti di alimentazione forzata e purificazione - in altri termini di violenza sessuale e disordini alimentari, mai chiamati per nome nell'universo di Han Kang ... Il racconto di Han Kang non è un monito per l'onnivoro, e quello di Yeong-hye verso il vegetarianesimo non è un viaggio felice. Astenersi dal mangiare esseri viventi non conduce all'illuminazione. Via via che Yeong-hye si spegne, l'autrice, come una vera divinità, ci lascia a interrogarci su cosa sia meglio, che la protagonista viva o muoia. E da questa domanda ne nasce un'altra, la domanda ultima che non vogliamo davvero affrontare: "Perché, è così terribile morire?"». (The New York Times)
Una palestra comunale, decine di cadaveri che saturano l'aria di un «orribile tanfo putrido». Siamo a Gwangju, in Corea del Sud, nel maggio 1980: dopo il colpo di Stato di Chun Doo-hwan, in tutto il paese vige la legge marziale. Quando i militari hanno aperto il fuoco su un corteo di protesta è iniziata l'insurrezione, seguita da brutali rappresaglie; "Atti umani" è il coro polifonico dei vivi e dei morti di una carneficina mai veramente narrata in Occidente. Conosciamo il quindicenne Dong-ho, alla ricerca di un amico scomparso; Eun-sook, la redattrice che ha assaggiato il «rullo inchiostratore» della censura e i «sette schiaffi» di un interrogatorio; l'anonimo prigioniero che ha avuto la sfortuna di sopravvivere; la giovane operaia calpestata a sangue da un poliziotto in borghese. Dopo il massacro, ancora anni di carcere, sevizie, delazioni, dinieghi; al volgere del millennio stentate aperture, parziali ammissioni, tardive commemorazioni.
"Ho fatto un sogno" dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l'ideale di un'estatica dissoluzione nell'indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell'ordinario quando si inceppa il principio di realtà - proprio come avviene nei sogni più pericolosi.