Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896 - Roma 1957) e Alessandra Wolff-Stomersee (Nizza 1894 - Palermo 1982), due aristocratici visceralmente legati a punti distanti ed appartati della civiltà europea, raccontano, attraverso documenti ed immagini, la propria vita e quella delle loro terre. Le immagini percorrono i mondi scomparsi: la vita di un giovin signore a Palermo e nel feudo agli inizi del secolo; il castello di Stomersee in Lettonia; i balli a Palermo nel 1929, l'anno della crisi americana; l'Europa tra le due guerre. Poi le distruzioni e la rinascita degli affetti nell'"impancarsi", secondo la terminologia di Tomasi di Lampedusa, a maestri della nuova generazione, insieme all'emergere di una straordinaria capacità da parte di Giuseppe Tomasi di trasmettere la propria esperienza vitale nel romanzo italiano più venduto del secolo. Sul finire degli anni Cinquanta un tuffo nell'allora intatto mondo dei "santi" Tomasi a Palma di Montechiaro, un angolo ignoto e affatto suggestivo della temperie controriformista nella lontana Sicilia. In ultimo il male implacabile, che progressivamente traspare nel volto dello scrittore fra il 1956 ed il 1957: una documentazione con cui la fotografia precorre quel che apparirà di lì a poco evidente; le ultime lettere, infine, e la morte del principe.
«Queste e tant'altre cose ebbero origine quasi settant'anni fa in una città siciliana di provincia, in una città distrutta, in una comunità traumatizzata e isolata dai grandi centri. Ma Palermo non era, come la Spagna nel suo torpore franchista, una casa di morti. Giuseppe Lampedusa o Lucio Piccolo erano dei dilettanti, ma rientravano anche nella categoria dei sapienti appartati, erano l'humus di un mondo civile». Poiché il principe che scrisse Il Gattopardo fu il creatore di un mito, di un modo di dire, di una concezione del mondo (gattopardesco, appunto), questo suo ritratto, che si allarga a una città vissuta e a una classe sociale al tramonto, cerca di introdurre nel suo modo di leggere i libri degli altri e di assimilarli a se stesso, nel suo modo di specchiare nelle proprie le altre immagini letterarie, nel suo modo di guardare con il massimo ingrandimento i meccanismi delle narrazioni. Gioacchino Lanza Tomasi, suo figlio adottivo, fu per anni anche l'allievo della piccola accademia di lettura che Tomasi di Lampedusa teneva per alcuni giovani; ed è stato anche nel tempo l'artefice di un'opera filologica che «ha così propiziato - spiega Silvano Nigro nella Nota al volume - la rilettura critica del Gattopardo». «Gioitto» - così era chiamato nelle lettere del principe - inizia i suoi ricordi, dettati poco prima di morire, dalla biblioteca della madre spagnola. Testi spagnoli classici di grandi narratori e poeti: Tomasi di Lampedusa vi poteva esercitare ariosamente la sua arte «di indagatore del comportamento umano e di narratologo». «Asciutto e fascinoso racconto critico. È il ritratto intimo della Palermo negli anni di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ma è anche il romanzo di formazione di un giovane che arriverà a guardarsi nello specchio delle pagine scritte dal padre adottivo» (Salvatore Silvano Nigro).