In una gelida notte del mese di nevoso dell'anno II, ossia intorno al 5 gennaio del 1794, un drappello di sanculotti preleva Françoiis-Élie Corentin per condurlo alla chiesa di Saint-Nicolas-des-Champs. Già allievo di Tiepolo e ora impegnato nell'atelier di David, Corentin è un vecchio maestro la cui notorietà non si è mai trasformata in gloria. Il compito che nell'atmosfera sordida e caravaggesca della sacrestia gli viene assegnato da eminenti capi della rivoluzione parigina è non meno arduo che stupefacente: in cambio di un compenso regale ma nella più assoluta segretezza e in tempi strettissimi, dovrà ritrarre i membri del Comitato di salute pubblica, gli Undici. Detentori di un potere assoluto e fantasma, i tirannicidi incarnano ormai il più plumbeo ritorno del tiranno globale che si spaccia per popolo e sono lacerati da feroci rivalità. Corentin dovrà dare a Robespierre e ai suoi il massimo rilievo: sarà una mendace assemblea di eroi-fratelli, un'ultima cena truccata. La carneficina del Grande Terrore è alle porte. Corentin non arretra: e dipinge il suo capolavoro, il quadro perfetto che farà di lui una leggenda. Un quadro che attrae come un magnete e sgomenta, perché gli Undici sono la Storia in atto, «creature di terrore e d'impeto», mostri, dèi e uomini, figure spaventose che ancor oggi, dalle pareti del Louvre, si avventano su di noi, i dannati. Un quadro che non esiste, come non è mai esistito François-Élie Corentin, il suo autore, ma che mancava, e a cui solo Michon, con la fastosa potenza della sua parola, poteva dar vita.
"Vite minuscole" esce in Francia nel 1984. È il primo libro di uno scrittore ignoto al milieu letterario, ma è subito chiaro che si tratta di un esordio folgorante. E audace: recuperando una tradizione che risale a Plutarco, a Svetonio, all'agiografia, Michon ci racconta le vite di dieci personaggi non già illustri o esemplari, ma, appunto, minuscoli: e dunque votati all'oblio se non intervenisse a riscattarli una lingua sontuosa, di inusitata e abbagliante bellezza, capace di "trasformare la carne morta in testo e la sconfitta in oro". Vite come quella dell'antenato Alain Dufourneau, l'orfano che vuole "fare il salto nel colore e nella violenza", in Africa, convinto che solo laggiù un contadino diventa un Bianco e, fosse anche "l'ultimo dei figli malnati, deformi e ripudiati della lingua madre", può sentirsi più vicino alla sua sottana di un Nero; o come quella, lacerante, di Eugène e Clara, i nonni paterni, inchiodati nel ruolo di "tramite di un dio assentato" - il padre, il "comandante guercio", che ha preso il largo e da allora scandisce la vita del figlio come la stampella di Long John Silver, nell'Isola del tesoro, "percorre il ponte di una goletta piena di sotterfugi"; o come quella dei fratelli Roland e Rémi Bakroot, i compagni di collegio, torvamente sprofondati nel passato remoto dei libri il primo, nell'invincibile presente il secondo, e uniti da una rabbia ostinata non meno che da un folle amore.