I contributi raccolti nel presente volume si interrogano, da punti di vista differenti, sul senso da attribuire all'invito batailleano: "È giunto il momento di mettere in pratica un insegnamento dell'irriducibile", e sull'etica impossibile che ne discende. Un'etica che, pur nella presa d'atto dell'inevitabile riduzione dell'umano a 'cosa', non si rassegna né si piega alla venerazione di ciò che c'è; ma che tenacemente, e con disciplina, invita a cercare, fin dentro la cosificazione, ciò che, nelle forme lussuose e idiote del soggetto e del mondo, sfugge e resiste con grazia sovrana all'imperativo della riduzione, silenziosamente ripetendo: non serviam.
L'autobiografia della vita malata ci parla del rapporto sempre più stretto che nella cultura novecentesca viene a istituirsi fra la scrittura autobiografica e l'esperienza della malattia, sia fisica che psicologica o spirituale. A partire da Nietzsche, infatti, la malattia, la degenerazione, tutte le forme indebolite della vita, vengono lette non più come segni di decadimento, ma al contrario come manifestazioni indirette di potenza, come esperimenti tesi a una trasformazione delle forme di vita, esperimenti impossibili a tentarsi per altre vie meno dolorose e più comuni. La malattia diventa così la condizione dell'invenzione letteraria, artistica, filosofica e, perché no, anche politica. Il saggio si declina attraverso cinque capitoli dedicati rispettivamente a Nietzsche di cui si analizza "Ecce homo", cioè un testo autobiografico; alla figura dostoievskiana dell'"idiota" in cui s'incontrano l'elemento autobiografico dell'epilessia e l'invenzione etico-letteraria dell' "uomo assolutamente buono"; agli scritti autobiografici di Benjamin di cui si ricorda anche l'attenzione alle figure del flaneur e del collezionista in quanto modi di vita marginali e periferici.
"Che cos'è il perdono se non un po' di tempo in più, un tempo in più per far evaporare la vendetta, un tempo in più perché il male sia sconfitto?" Ma in che lingua si parla questo tempo che deve passare? È davvero possibile immaginare una "scena di perdono senza un linguaggio condiviso", come si è chiesto Jacques Derrida? Bruno Moroncini torna su questo problema, passando il perdono al vaglio della pratica della tradizione, che implica il passaggio da un linguaggio a un altro, e dunque la consegna ad altri di un messaggio di cui si rischia sempre di perder l'essenziale. La traduzione torna a incrociarsi con la tradizione, con la trasmissione dall'uomo all'uomo, per misurarsi con le turbolente e drammatiche istanze del nostro presente. In appendice, "Il secolo e il perdono" di Jacques Derrida.
L'esperienza di Auschwitz ha segnato il nostro tempo in modo indelebile, disarmando il pensiero razionale e la sua capacità di interpretare le vicende umane e la Storia. Di fronte a tale crisi quale può essere il compito della filosofia? Essa, proprio perché è fuori dal dominio delle scienze, può tentare un recupero radicale della "dignità del pensare": in un'epoca in cui la coscienza sembra essersi rifugiata e godere della propria irresponsabilità, il pensiero filosofico, al di là della tecnica e delle sue rassicurazioni, è il luogo in cui rilanciare le domande dell'etica, della giustizia e del perché Auschwitz fu possibile.