Alcuni testi della letteratura ebraica parlano senza imbarazzo di una pluralità di volti e nomi di Dio, spesso associando la realtà suprema ai tratti fisici e psichici della persona umana. Ma dove conduce questa rappresentazione visiva, polimorfica e antropomorfica? E come si coniuga con il divieto dell’immagine che fonda l’Israele biblico? Un Dio che si rappresenta in più modi pare contraddire il luogo comune di un pensiero ebraico anti-mitico, cui è sottesa la distanza di YHWH, Dio unico e trascendente. È questa complessità di significati ad essere messa in gioco negli studi del Novecento e soprattutto degli ultimi anni, una problematica di cui il volume presenta le linee di ricerca e gli sviluppi più importanti, anche rintracciando nuove possibili letture delle forme e passioni di Dio, focalizzate sulla letteratura rabbinica ma aperte a tutto il mondo ebraico tardo-antico e medievale. Nella convinzione di fondo che l’identità culturale del giudaismo si sia costruita, fra grandi tensioni interne ed esterne, elaborando un codice linguistico di immagini e narrazioni concrete e cercando modulazioni sempre nuove delle (insopprimibili) figure del divino nell’immaginario e nel discorso esegetico.
Quando sul finire del Duecento il rabbino spagnolo Bahya ben Aser compose il suo "Commento alla Torah", egli interpretò la Scrittura attraverso un sistema a più livelli, capace di utilizzare le "vie" esegetiche classiche della tradizione rabbinica, di abbracciare la "via dell'intelletto" (il discorso esegetico della scienza e della filosofia) e di aprire, al culmine della lettura, la "via della qabbalah": il discorso esegetico della tradizione esoterica, relativo ai "segreti della Torah", trasmesso dalle diverse scuole dei cabalisti. Tale carattere inclusivo e divulgativo fu senza dubbio uno dei motivi della popolarità che il testo riscosse nel mondo ebraico (e non solo); ed è ciò che rende tuttora estremamente interessante la sua disamina.