Silvio Negro concepì questo libro dopo aver letto numerose opere sulle vicende politiche dell'ultimissima Roma papale, quella del regno di Pio IX, fra gli anni della Repubblica Romana e la conquista piemontese. Anni singolari e inquieti, nei quali la città, benché fosse perfettamente consapevole della fine dello Stato Pontificio, cercò di continuare a vivere come se non vi fossero bersaglieri e garibaldini alle porte. Sbirciando in quelle trattazioni, che si occupavano prevalentemente di avvenimenti politici e militari, Negro scoprì "scorci di paesaggio e di costume così inaspettati, così profondamente ed irrevocabilmente diversi da quelli della Roma del nostro tempo" da decidere di dedicare un volume intero all'urbe papale prima della sua malinconica fine. È la storia di una città ancora odorosa, com'è stato detto, di campagna, di pascolo e di stalla oltre che di splendori barocchi e glorie del passato. Una città in cui l'aristocrazia vive in gran parte in maniera sobria, non attacca i cavalli alle carrozze che nelle grandi occasioni e si accontenta di esibire la magnificenza del nome in feste date per dovere sociale una volta l'anno. Un luogo dove "gli stracci stessi del mendicante conservano una certa maestà", e cortesia e urbanità albergano in un popolo in cui è totalmente assente il "tipo canaglia, che altrove è così appariscente, specialmente a Londra e a Parigi".
"Chi ha rivelato Roma ai romani è stato un non romano, un veneto, Silvio Negro, capo della redazione romana del Corriere della Sera e vaticanista di fama europea", scrive Stefano Malatesta nell'introduzione a questa nuova edizione di "Roma, non basta una vita", l'opera più nota del giornalista e scrittore considerato il creatore della nuova informazione vaticana, l'inventore del vaticanismo moderno. Volume postumo, pubblicato per la prima volta dopo due anni dalla morte di Negro - il titolo si deve a Dino Buzzati, grande amico dell'autore -, il libro segna una svolta rilevante tra i cultori della "romanità". Prima di Negro imperavano, come scrive Malatesta, "romanisti, cultori e retori di una romanità medio-borghese, che avevano come numi tutelari non il grandissimo Belli ma Trilussa e Pascarella". Con Negro, scrittore che aveva vinto il Premio Bagutta nel '36, dopo Gadda, Palazzeschi e Comisso, l'aneddotica romanesca assurge a genere letterario in grado di illuminare, più di numerosi e ponderosi saggi, l'arte e la storia autentica della capitale. Come il flâneur di benjaminiana memoria, Negro conduce il lettore negli angoli più riposti della capitale, là dove "l'anima e il corpo" della Città eterna possono offrirsi davvero allo sguardo. Non soltanto, dunque, il Colosseo, San Pietro, i Fori, il Campidoglio e così via, ma la piazzetta che si schiude inaspettata, con la sua luce insolita, tra i palazzi. Prefazione di Emilio Cecchi.