"Cominciai ad avvertire l'inquietudine che quegli occhiali mi avevano seminato nel momento in cui, nella mia camera, mi ritrovai a disegnarli. Più volte, sullo stesso foglio; sicché ne venne un campo di occhiali come di meloni: grandi, piccoli, appena accennati, vuoti di lenti, con le lenti [...]. Uno strano disegno, tra quelli che faccio di solito: e chi lo vedesse senza conoscere queste pagine, forse penserebbe sia venuto fuori in margine a una lettura di Spinoza, che fabbricava occhiali di quel tipo; o che fossi rimasto impressionato degli occhiali di don Antonio de Solis, in quel ritratto che adorna il frontespizio della edizione settecentesca della sua 'Istoria della conquista del Messico'; o che avessi studiato di illustrare i versi di quel poeta arabo-siculo sulle lenti. Ed ecco che in questo momento, mentre scrivo, il fatto di ricordare queste immagini (immagini vere e proprie e immagini di parole) mi sorprende e aggiunge inquietudine all'inquietudine. Com'è che così nitidamente vedo Spinoza nella sua bottega di ottico, l'ombra della sera, le lenti come piccoli laghi in un paesaggio di manoscritti, tra le selve delle parole scritte [...]; che così nitidamente ricordo il ritratto di don Antonio, e i versi di Ibn Hamdîs? Non c'è qualcosa, nelle lenti, negli occhiali, che mi suscita, remoto, imprecisabile, un senso di stupore e insieme di apprensione?" (Leonardo Sciascia, "Todo modo", 1974)
Questo è un libro sul tempo e sul corpo. Si occupa della scrittura del pittore cinquecentesco Jacopo Carucci detto il Pontormo. E anche della scrittura attorno a lui e su di lui. Racconta la pittura del Pontormo, inevitabilmente; ma come attraversata dal suono della parola e dalla febbre che l'invenzione letteraria vi ha acceso dentro. Pontormo è anche la letteratura che l'ha inventato. E che gli appartiene, come patina del tempo. Se il manierismo è "ricerca della febbre", come suggeriva Bataille, questo è un libro sul manierismo. Il volume accoglie in appendice il Dossier dell'invenzione di Pontormo: "La lettera al Varchi" e "Il libro mio" del pittore; i versi in burla inviati da Bronzino al suo maestro.
Il principe fulvo, Don Fabrizio Corbèra, Principe di Salina, è il protagonista di questo arioso "racconto di un romanzo" che Salvatore Silvano Nigro ha costruito per svelare II Gattopardo e guidarci in una regolata intimità di documenti inediti, lettere e testimonianze che, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, illuminano biografia e scrittura. Vengono in primo piano le intemperanze degli anni giovanili di Lampedusa, la vocazione a sgangherarsi nel tentativo di riscrivere "Il Circolo Pickwick" di Dickens. Tutto questo romanzeggiare dickensiano sta prima e dietro "Il Gattopardo". Nigro rapisce lo sguardo quotidiano del Lampedusa maturo, entrando nelle prospettive casalinghe e urbane che erano finite sotto i suoi occhi, per rintracciarvi le immagini che, trasfigurate, si sarebbero trasformate nel "Gattopardo" in veicoli narrativi e in impianto di forme. E si scopre con sorpresa come perfino le più apparentemente innocue presenze di una vita siano diventate "personaggi". In questa luce il capolavoro di Lampedusa è raccontato non come il romanzo storico che tutti conosciamo, ma come un segreto romanzo fantastico e allegorico intimamente strutturato dalla trama di un quadro vivente. Dentro "Il Gattopardo" si muovono una mutante creatura di cielo e di mare, sagome di animali che fanno sberleffi o imprecano, due statue animate: una Venere, determinata e "assassina"; e un Ercole in divisa fulva, da leone, legato all'araldica e alla simbologia dei Borbone.