"Scrivere un romanzo vuol dire portare dentro di sé un segreto enorme. Provare a disfarsene parlandone non serve a niente. Il mondo diventa conoscibile solo dopo la scrittura. L'unico modo per liberarci del peso del segreto è scriverlo. Fino ad allora, è impossibile da condividere. Tutto ciò che non è il romanzo è incapace di comunicarlo. Mentre lavoravo a "Libro" dubitavo di me stesso, temevo che i personaggi non uscissero fuori, o la mia pelle assumesse la ruvidezza delle pietre del villaggio che riempiva i miei pensieri. Spesso, a metà di una conversazione, iniziavo a parlare con la voce di Galopim, di Cosme d'Ilídio mentre attende il ritorno della madre. A quell'epoca mi portavo addosso anni che non avevo mai vissuto ma che, durante la stesura del romanzo, respiravo in maniera assoluta, totale. Sono nato l'anno della Rivoluzione dei garofani, nel settembre 1974, ma le domeniche, durante gli interminabili pranzi di famiglia, i miei genitori e le mie sorelle ripetevano le storie di prima che io nascessi quando, durante la dittatura, erano emigrati in Francia. Esattamente come centinaia di migliaia di altri portoghesi. Un milione e mezzo di persone sono emigrate in Francia tra il 1960 e il 1974: circa il 15% di tutta la popolazione del paese. Questa era la dimensione del segreto che mi portavo addosso mentre scrivevo "Libro". I miei genitori sono tornati in patria pochi anni prima della mia nascita, stabilendosi nel piccolo borgo nell'entroterra di Alentejo..."
Una storia d'amore, di vita e di morte, incentrata sulla vicenda del maratoneta portoghese Francisco Lázaro, che morì a causa di un'insolazione dopo aver corso trenta chilometri alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912.
Un romanzo aspro e allo stesso tempo commovente che coinvolge il lettore nell'alternarsi di esistenze ricche di luci e ombre, di silenzi e risa, di timori e speranze.
«José Luís Peixoto è una delle più sorprendenti rivelazioni della letteratura portoghese contemporanea».
José Saramago
In questa cronaca familiare portoghese si alternano e sovrappongono le voci di un padre e di un figlio. Il primo, morto dopo una lunga malattia, ripercorre la propria esistenza, fatta di molte illusioni e molti fallimenti, e osserva, senza intervenire, il presente da cui ormai è escluso; il secondo rivive il passato e immagina il futuro mentre, ai Giochi olimpici di Stoccolma del 1912, partecipa alla maratona. Non avrà la gioia di conoscere il bambino che sua moglie sta per mettere al mondo: è destinato infatti a morire durante la corsa, stroncato da un'insolazione. Le parole di entrambi si mescolano nel ripercorrere un quadro atemporale e trascendente in cui l'esistenza si rivela mistero e solitudine. Al centro degli avvenimenti, la bottega di falegname di Francisco Lázaro che, tramandata di padre in figlio, nasconde una stanza tenuta sempre chiusa: è stipata di vecchi e malandati pianoforti, muti testimoni delle alterne vicissitudini della vita.
Frammentario e solo apparentemente sconnesso, perché modellato sulla tortuosità del filo dei ricordi, lo stile virtuoso e musicale di Peixoto conduce il lettore nell'intimità più pudica e miserabile dei suoi personaggi, dove la tenerezza si scontra con la crudeltà, e la morte, nonostante tutto, concede spazio alla vita. Quella stanza chiusa, il cimitero dei pianoforti, è la metafora dell'esistenza, è quella zona d'ombra e di conforto in cui si recuperano gli stimoli necessari per andare avanti.