Pubblicato nel 1728 all'interno del terzo volume di Miscellanee di Jonathan Swift e Alexander Pope, il Perì Bathous, o L'arte di toccare il fondo in poesia è una divertita esplorazione dei bassifondi del Parnaso, una velenosa spigolatura di assurdità estetiche, un prontuario di sovversione poetica ad uso delle teste di legno erudite - il tutto addobbato nelle contegnose vesti della trattatistica classica sul sublime. Questa spietata disamina delle cause e delle manifestazioni del cattivo gusto in poesia nasce come esercizio collettivo dello Scriblerus Club, il circolo informale di letterati e politici Tory che, a partire dal 1714, furono di fatto proscritti dall'attività pubblica sotto l'incontrastata supremazia Whig. A perfezionare l'opera sarà il solo Pope: la sua condizione di outsider, oltre alla fama e agli anticipi per le sue traduzioni omeriche, faranno di lui il primo poeta inglese capace di fondare il proprio successo soltanto sul pubblico, senza le ingerenze del mecenatismo. Fu una carriera che improntò un'epoca e raggiunse l'apice nelle Imitazioni di Orazio, una serie di satire, odi ed epistole in distici eroici sull'arte e la letteratura. Fra queste, l'Epistola al dottor Arbuthnot - qui pubblicata con testo a fronte - è il coronamento del «lungo malanno» che fu la vita di Pope: un capolavoro che fonde autobiografia intima, struggente elegia dell'amicizia e satira abrasiva in una deflagrante miscela di furia, decorum, malizia, malinconia e felicità espressiva.
Un certo Lord Petre ebbe l’ardire di tagliare surrettiziamente un ricciolo di Lady Arabella Fermor – e il gelo calò fra le due famiglie. Finché un giovane e già celebre poeta ricevette il delicato incarico di scrivere un testo che contribuisse a rasserenare gli animi. Futile occasione, si direbbe: se non che l’artista interpellato era il beffardo e geniale Alexander Pope, «piccolo usignolo» della Chiesa cattolica nell’Inghilterra settecentesca. Così solleticato, Pope compose un poemetto che per inventiva, passionalità ed estro poetico tocca punte di epicità omerica: non per niente lavorava a quel tempo a una memorabile traduzione dell’Iliade. La sua, però, è una guerra in miniatura, incentrata sull’eterna, risibile guerra dei sessi, dove l’infinitesimale, come in un reame gulliveriano – lo ha notato Peter Ackroyd –, giganteggia: «houppettes, nèi, ciprie, bibbie, billets-doux» recita un verso.
Inutile dire che Il ratto del ricciolo riscosse un immediato, immenso successo di pubblico e suscitò inviperite reazioni nella buona società. Ma Pope non era tipo da subire passivamente le rampogne. E per ribattere trovò la soluzione ideale: si sobbarcò alla – per così dire – pars deconstruens, e scrisse un commento che è una chiave di lettura ultratendenziosa della sua stessa opera nonché la satira di ogni pretesa interpretativa. Utilizzando argomenti «coerenti e inconfutabili», stigmatizzò la fobia papista che avvelenava il clima inglese, fustigò pedanti e petulanti – e inventò una nuova forma di autopromozione.