"Il parassita che nel 1892 Jules Renard elesse a protagonista di un suo romanzo (...) non ha nulla dei suoi antenati, o non gli resta dei suoi antenati che quel maledetto vizio di ogni tempo di sedere alla tavola degli altri e diventare 'il convitato abituale'. Per raggiungere i suoi scopi (che non si limitano al mangiare e dormire) si serve della letteratura (...) Henri (è questo il suo nome) aspira a divenire l'idolo ben remunerato di una brava famiglia borghese, di un marito lavoratore, di una moglie attenta, che il profumo di una vita diversa, di esistenze godute e perdute alla fiamma della poesia, getta senza alcun bovarismo e col massimo controllo in uno stato di lieve abbandono, di stordito turbamento (...) L'impegno che lo sovrasta è quello d'incantarli, soffiando con abilità in quella specie di flauto dolce che è la poesia per chi non la conosce; di trasportarli sul suo illusorio palcoscenico, ov'egli, recitando una vita che non esiste e mai smettendo via via di complimentarsi con se stesso per l'ottimo lavoro che sta eseguendo, potrà cantare alla fine la sua vittoria." (Giovanni Macchia) Con un saggio di Alfredo Giuliani e una recensione di Marcel Schwob.
"Questo libro è anche un sasso scagliato contro quest'immagine angelica del bambino, che deve essere sempre innocente, felice, coi capelli biondi e il sorriso dolce, i piedini teneri e puri. Il suo personaggio sarà una testa matta, coi capelli rossi, un bambino ombroso, infelice, cattivo, spione, invidioso, bugiardo, a un passo dal suicidio, persecutore di animaletti domestici, pieno di pidocchi, coi piedi inguardabili per la sporcizia [...] Ancora: si da un sacco di arie da padroncino con la cameriera, ogni tanto in famiglia se la gioca da saputello, e arriva perfino a causare il licenziamento della vecchia domestica Honorine." (dalla prefazionedi Rossana Campo)