"Il fuoco è tutto; il resto non ha importanza", affermò Napoleone alla vigilia della battaglia di Wagram, ribadendo una convinzione da tempo elaborata. Di fatto, il cruento scontro che il 5 e 6 luglio 1809 oppose su un fronte di 22 chilometri gli eserciti francese ed austriaco (una forza complessiva di 300.000 uomini), fu il più imponente combattimento delle guerre napoleoniche, un fatto d'armi che da ambo le parti vide un impiego del fuoco d'artiglieria senza precedenti. La campagna danubiana del 1809, risultato della rinnovata aggressività bellica dell'Austria dopo le ripetute sconfitte culminate nella rotta di Austerlitz del 1805 e le conseguenti perdite territoriali a vantaggio dei francesi, si caratterizzò per l'alternarsi delle fortune dei contendenti. In una prima fase, dopo l'occupazione di Vienna, Bonaparte cercò con risolutezza l'annientamento dell'Armata principale dell'arciduca Carlo, finendo però col subire uno scacco ad Aspern-Essling nel mese di maggio: gli austriaci avevano fatto propria la tattica dei sistemi di corpi d'armata ideata da Napoleone, sicché per l'imperatore diventava arduo assestare il colpo definitivo al nemico. Tale stato di cose condusse allo scontro d'attrito dei due giorni di Wagram, che segnò una svolta fondamentale nella conduzione della guerra in generale, preannunciandone i suoi sviluppi moderni.
L'istituzione militare di uno stato ne riflette in modo fedele l'intima 'essenza" e le caratteristiche politiche e sociali, Goethe ed Engels condividevano questo assunto. Ciò è particolarmente vero dell'esercito asburgico (austriaco prima e austro-ungarico dopo l'Ausgleich 1867), che nei suoi quattro secoli di storia accompagnò le fortune e il declino della dinastia che esso serviva e di cui fu il più solido pilastro istituzionale. Il libro narra - come sottolinea l'autore - l'ultimo secolo di vita di una delle più antiche organizzazioni militari europee, in special modo la lunga fase in cui Francesco Giuseppe improntò di sé nell'attitudine nelle scelte e negli errori - quell'esercito che come nessun'altra istituzione sentì suo.
Goethe ed Engels, due figure tanto rappresentative del mondo germanico quanto distanti per interessi e scopi, sostanzialmente condivisero la veduta secondo cui l'istituzione militare di uno stato ne riflette in modo fedele l'intima "essenza" e le caratteristiche politiche e sociali. Ciò è particolarmente vero dell'esercito asburgico (austriaco prima e austro-ungarico dopo l'Ausgleich del 1867), che nei suoi quattro secoli di storia accompagnò le fortune e il declino della dinastia che esso serviva e di cui fu il più solido pilastro istituzionale. L'apparato militare della monarchia non fu solo uno strumento che la preservò dalle minacce esterne ma si rivelò - soprattutto negli anni 1848 e 1849 - cruciale per la salvaguardia dell'impero quando questo rischiò di soccombere alle potenti pressioni disgregatrici provenienti dal suo interno. Nonostante il suo status preminente, l'esercito, alieno da spinte dirigistiche, non fece mai dell'impero un Militarstaat alla prussiana: esso conservò da un lato la propria lealtà dinastica e dall'altro una straordinaria coesione, tanto che, alla dissoluzione della monarchia e dunque dell'esercito, l'ultimo vessillo asburgico non fu fatto sventolare dall'imperatore a Vienna, ma da un comandante militare nella remota Albania. Il libro narra - come sottolinea l'Autore - l'ultimo secolo di vita di una delle più antiche organizzazioni militari europee, in special modo la lunga fase in cui Francesco Giuseppe improntò di sé - nell'attitudine, nelle scelte e negli errori - quell'esercito che come nessun'altra istituzione sentì suo.