"In 'D'amore e d'ombra' ci troviamo di fronte a poesie dell'anima. L'artista diventa figlio di Icaro, consapevole delle sue ali di pece, 'dei segreti e delle illusioni del volo'. 'Ebbrezza' diventa la parola chiave. Ebbrezza si contrappone a un paesaggio di nebbie, a un cuore "di ghiaccio"; diventa fuga consapevole, esaltazione necessaria per continuare a sperare, per approssimarsi a una felicità che si fa fugace ma che si vuole assaporare fino in fondo. Una poesia, quella di Russo, lontana sia da sperimentalismi e sterili astrazioni che dalle tentazioni della dimensione edonistica di un certo postmoderno, riverso in una continua dispersione dei fatti e nella negazione di un centro. L'Autore mette in atto una forma di resistenza contro le nostre ne-vrosi, attraverso l'esercizio di una lingua classica e suggestiva che si fa custode di un forte io poetico. Le immagini e i suoni che evoca sono, come nei quadri di Hopper, raggi di luce che attraversano una camera vuota".
I ragazzi disabili, donandomi la possibilità di capirli e il privilegio di aiutarli, mi hanno offerto l'opportunità di liberare il mio cielo dalle nuvole delle effimere certezze e dai nembi dei miei sterili egoismi. Così da educatore per la loro riabilitazione, spesso mi sono ritrovato educato e riabilitato dalle loro quotidiane lezioni. Io li conosco nei sorrisi e nelle lacrime, nel candore dei loro gesti e tra le righe dei balbettii, nei torrenti logorroici e nell'assenza dei loro infiniti silenzi, nei loro disegni dove un fiore è più alto di un albero, e nelle loro disarmanti logiche che tramutano l'handicap delle disabilità nella dignità di esserci e di essere al contempo paradigmatici.
Quattordici mesi: poco più di un anno. Un tempo non brevissimo ma neppure troppo lungo. Che oggettivamente si addice al purgatorio piuttosto che all'inferno; ad una condizione sofferta ma transitoria, propria di chi riconquista la pienezza di vita dopo una parentesi d'infelicità. Per l'autore, invece, la migrazione dei genitori all'estero e il suo affidamento agli istitutori del Castello di Montesardo, apre una porta sull'inferno, varcata in entrata e in uscita cinquant'anni fa, e ovviamente non più attraversata. La permanenza tra gli "orfanelli" gli procura un tormento intenso e terribile, ustioni da fuoco ardente fino alle midolla, difficili da sedare se non con l'esorcismo del racconto in età matura.