Prima della discesa agli inferi della Kolyma, la sterminata distesa di paludi e ghiacci nella Siberia nordorientale dove il regime sovietico portò al massimo livello di efficienza il sistematico annientamento delle sue vittime, Šalamov aveva già avuto modo di sperimentare la durezza della repressione staliniana: arrestato nel 1929 per «propaganda e organizzazione sovversiva», fu infatti condannato a scontare tre anni di lavori forzati in uno dei primi lager sovietici, quello di Višera, nel Nord degli Urali. Al ricordo di quell'esperienza - il primo impatto di uno spirito libero e forte con la spietata realtà politica e sociale del Paese - Šalamov torna in due momenti distinti della sua vita, dopo il ritorno a Mosca da uomo libero. Nel 1961, mentre già sta lavorando ai Racconti della Kolyma, scrive i due frammenti che aprono il volume, La prigione di Butyrki (1929) e Višera: testi incompiuti, eppure fondamentali per introdurre il corpo centrale del libro - quello che nel diario egli definì L'antiromanzo Višera, scritto tra il 1970 e il 1971, ma destinato a vedere la luce solo nel 1989. In queste pagine, che si saldano indissolubilmente ai Racconti della Kolyma e che spesso ne richiamano temi e personaggi tanto da costituirne l'indispensabile preludio, prende via via forma l'epopea negativa dei lager staliniani: la storia della loro nascita, di chi li abitò e di chi li diresse, dell'incrudelirsi delle regole che li trasformarono in un perfetto meccanismo - congegnato «a immagine del mondo» - atto non solo a infliggere sofferenze estreme, ma soprattutto a stravolgere ogni norma etica, distruggendo moralmente tanto le vittime quanto i carnefici: «Che cosa mi ha dato Višera? Tre anni di disillusioni quanto agli amici e di speranze infantili infrante. Un'insolita sicurezza nella mia forza vitale ... solo, senza amici, e senza nessuno che la pensasse come me, sopravvissi a quella prova fisica e morale. Ero saldo sulle mie gambe e la vita non mi faceva paura».
«Sono stato arrestato il 19 febbraio 1929. Considero questo giorno l'inizio della mia vita sociale, il mio primo vero incontro con la realtà.» Varlam Shalamov, allora studente all'università di Mosca, finisce in carcere, a soli ventidue anni, per i suoi legami con alcuni attivisti dell'opposizione leninista-trockista e per la stampa e la diffusione del Testamento di Lenin, la lettera del padre della Rivoluzione nella quale sono espresse alcune riserve su Stalin. Inquisito come «controrivoluzionario», in realtà in quanto oppositore politico, viene condannato a tre anni di lavori forzati e deportato in un campo di prigionia del Gulag sugli Urali, divenendo una delle prime vittime delle purghe staliniane.
Scontata la pena, nel 1931 torna a Mosca, dove collabora ad alcune riviste, scrive, si sposa e ha una figlia, mentre la polizia lo considera, a sua insaputa, un evaso: pende infatti sulla sua testa una condanna a tre anni di confino, che però nessuno gli ha notificato. Arrestato per la seconda volta nel 1937, viene mandato in Siberia nei campi di lavoro della Kolyma, definita da Aleksandr Solzenicyn l'«ultimo cerchio del sistema». Nuovamente processato nel 1943, è condannato a dieci anni di lavori forzati più cinque anni di privazione dei diritti civili per propaganda antisovietica.
Rilasciato dopo la morte di Stalin, vivrà per altri ventinove anni un'esistenza precaria, segnata da problemi di salute, nonché dalla separazione dalla moglie e il rinnegamento della figlia, e però completamente assorbita dal lavoro sui Racconti di Kolyma, che in Urss verranno pubblicati solo post mortem, e su alcune raccolte di poesie.
La riabilitazione per le accuse del 1929 non arriverà che il 12 aprile 2000, a diciotto anni dalla sua scomparsa e quindici anni dopo l'inizio della perestrojka.
Alcune mie vite raccoglie per la prima volta i documenti dei tre processi, completi di tutti gli interrogatori. A delineare la personalità di Shalamov, oltre ai suoi racconti su quelle vicende, contribuisce materiale finora inedito: i rapporti informativi stilati dalle spie (anche presunti amici dello scrittore) reclutate dalla polizia politica tra il 1956 e il 1959.
Una precisa e documentata ricostruzione della trentennale, straordinaria quanto terribile vicenda giudiziaria e carceraria attraverso i materiali istruttori e i racconti del protagonista. Un atto dovuto a uno dei più grandi scrittori russi del Novecento.
In questo libro Salamov ripercorre l'epoca della sua infanzia e formazione a Vologda, città del Nord nivea e cupoliforme, densa di significati sovrapposti nella storia russa - primo fra tutti quello di essere stata città-simbolo dei confinati politici sotto gli zar. Con naturalezza, cercando di mantenere sempre la "percezione giovanile degli eventi" e oscillando nel tempo come seguisse il "mugghiante dondolio dello sciamano" (e di ascendenze sciamaniche era la sua famiglia), Salamov è riuscito a mescolare la corrente della sua vita al turbinoso flusso dela storia russa, senza mai distaccarsi dal tono fondamentale della sua opera.
Uno scrittore altissimo che ebbe in sorte di vivere e raccontare uno degli orrori più intensi e più vasti che l'umanità abbia escogitato.