Questo lavoro di ricerca prende avvio da una constatazione e da una curiosità. Partiamo dalla constatazione. Studiando la produzione cinematografica realizzata dal nazionalsocialismo tra il 1933 e il 1945, il confronto - estetico produttivo, comunicativo e ideologico - con un film si rivela imprescindibile: Süss, l'ebreo (Jud Süss, 1940) di Veit Harlan. Lo è per l'evidente qualità formale dell'opera, ma, soprattutto, per l'altrettanto evidente, quanto radicale, carica antisemita. Ed essendo l'antisemitismo uno snodo imprescindibile dell'ideologia nazionalsocialista, studiare Süss, l'ebreo significa, in fondo, studiare il totalitarismo hitleriano attraverso il punto di vista di un'«opera mondo» (un film di finzione), universo visivo di significati che racchiude l'essenza di un'epoca: la lotta tra l'elemento ariano minacciato dal suo nemico storico, l'ebreo. Quando oggi vediamo Süss, l'ebreo in realtà ci troviamo davanti a due differenti rappresentazioni del passato: la storia settecentesca di Süss, manipolata nella finzione cinematografica; e la storia del 1939-1941, quando la risoluzione della «questione ebraica» imboccò la strada che condusse alla «soluzione finale», prima con l'invasione della Polonia e poi con l'invasione dell'Unione Sovietica. L'interpretazione di Süss, l'ebreo è sin troppo semplice: i tedeschi hanno un solo modo per liberarsi dell'eterna minaccia ebraica. Il finale del film è la risposta. Per quanto riguarda invece la curiosità, è racchiusa in una domanda: cosa ne scrissero i critici italiani quando il film fu presentato in anteprima a Venezia nel settembre 1940 e uscì nel circuito nazionale nell'ottobre del 1941?
Questo studio si apre con l'analisi di un film italiano, Ossessione (1943) di Luchino Visconti, e si conclude con l'analisi di una altro film italiano, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini. In mezzo c'è la storia del cinema europeo sviluppatasi nell'arco di tempo compreso tra la fine del secondo conflitto mondiale e i primi anni Sessanta del Novecento (nella vicinanza di un passaggio epocale per la cultura occidentale, il sessantotto). Il confronto con alcuni film «esemplari» - essendo le opere cinematografiche un prezioso «documento» per interpretare la storia - consente un avvicinamento alle questioni di maggior rilievo dell'epoca della secolarizzazione. Il neorealismo rappresenta la rivoluzione estetica dalla quale prende avvio il cinema moderno. La politica degli autori a livello teorico, la successiva nouvelle vague e soprattutto il nuovo cinema d'autore affermatosi negli anni Sessanta, non rappresentano solo una «forma» nuova. La «forma» naturalmente ha una rilevanza non trascurabile. Ma dietro le questioni meramente formali, se si amplia il campo di osservazione, si scorgono le profonde mutazioni antropologiche. Il neorealismo è animato dal desiderio di guardare in faccia le tragedie umane, per mettere a fuoco l'identità stessa dell'uomo. Il passo successivo compiuto dal cinema d'autore dell'autodeterminazione, tratto peculiare della modernità, le cui conseguenze sono intimamente connesse alla «trasvalutazione dei valori» in atto nella società europea. Alla conclusione dello straordinario decennio - gli anni Sessanta - di effervescenza, originalità, profondità e creatività incarnate dal cinema d'autore europeo, proprio nel ribollente crogiolo culturale del Sessantotto, alla disumanizzazione estetica finisce per legarsi una virulenta ideologia politica. Il risultato finale, oltre a favorire il progressivo torpore (determinandone la scarsa rilevanza a livello internazionale) del cinema europeo (torpore dal quale ancora non si è ripreso), è la tragica fine delle illusioni, così ben rappresentata nell'ultimo film di un geniale e tormentato protagonista del tempo moderno, Pier Paolo Pasolini, che rivolge lo sguardo al Marchese de Sade per addentrarsi nell'inarrestabile processo di dissoluzione dell'umanità.
Questo studio intende segnalare alcune problematiche determinanti del cinema europeo dalle sue origini sino alla conclusione della seconda guerra mondiale. Scaturito dall'insegnamento universitario, il volume fornisce originali chiavi di interpretazione della contemporaneità e descrive l'affermazione della cinematografia a livello sociale e artistico quale prezioso indicatore dei comportamenti umani, pur in un contesto di radicale secolarizzazione. Nell'epoca del dominio universale della tecnica, quella dei fratelli Lumière fu l'ultima, straordinaria invenzione della supremazia europea sull'Occidente. Con il cinema l'arte si impegnava, in nome dell'avanguardia, a distruggere ogni barriera e indicava un grandioso "destino" di progresso per l'umanità, giunto all'apice nella Belle Époque ma destinato a frantumarsi sugli scogli di due conflitti mondiali. Con il cinema, inoltre, molti elementi dell'ideologia artistica originata dai movimenti rivoluzionari di inizio secolo finirono per confluire nel linguaggio dell'arte totalitaria, traduzione delle idee di avanguardia e arma di distruzione del nemico. Gli "anni vertiginosi" conobbero così prima il massimo splendore e poi il suicidio dell'Europa. La cinematografia percorse lo stesso cammino.
La storia del cinema europeo, dal neorealismo al Sessantotto, e anche la storia di una serie di problematiche legate alla vita e allo spirito. Il neorealismo rappresenta la rivoluzione estetica dalla quale nasce il cinema moderno. La «politica degli autori» a livello teorico, la successiva «nouvelle vague» e soprattutto il «nuovo cinema» d'autore affermatosi negli anni Sessanta non rappresentano, come molti sostengono, solo una "forma" nuova. La "forma" naturalmente ha una rilevanza non trascurabile. Ma se oltre alle questioni meramente formali, ampliando il campo di osservazione, si evidenziano le tensioni etiche presenti nelle opere cinematografiche, ne viene fuori una storia molto più complessa, caratterizzata da una forte tensione morale e spirituale. Il neorealismo e animato dal desiderio di guardare in faccia le tragedie umane, e il passo successivo compiuto dalla ricerca del cinema d'autore europeo conduce lo sguardo cinematografico verso la descrizione della libertà di autodeterminazione morale, tratto peculiare della modernità, le cui conseguenze sono intimamente connesse alla negazione etica, alla solitudine spirituale, all'eclissi del sacro. Naturalmente fra i vari autori presi in esame, da Roberto Rossellini a Federico Fellini, da Andrej Tarkovskij a Samuel Beckett, da Jean-Luc Godard a Michelangelo Antonioni, c'e chi vede nell'allontanamento da Dio la vera grande opportunità del moderno, chi, invece, collocandosi sulla sponda opposta, rivendica il primato dello spirituale nella sua ricerca, e chi rimane nel mezzo, oscillando tra le due polarità, senza prendere partito. Alla conclusione di uno straordinario decennio - gli anni Sessanta - di effervescenza, originalità, profondità e creatività incarnate dal cinema d'autore europeo, proprio nel ribollente crogiolo culturale del Sessantotto, alla disumanizzazione estetica finisce per legarsi una virulenta ideologia politica, anticristiana e genuinamente ostile ad ogni fenomeno legato alla sfera del sacro. Il risultato finale, oltre a favorire il progressivo torpore (determinandone la scarsa rilevanza a livello internazionale) del cinema europeo, torpore dal quale ancora non è stato capace di uscire, sarà il rovesciamento della secolarizzazione, con l'aprirsi della nuova fase del risveglio postmoderno della spiritualità.
Una delle figure più raccontate dalla storia del cinema è quella di Gesù di Nazareth. Dalla nascita della Settima Arte, infatti, fino alla nostra contemporaneità, il volto e la vita di Gesù sono stati rappresentati infinite volte sul grande schermo, sempre attraverso sguardi inediti e con estetiche differenti. Dai fratelli Lumière in poi è stato tutto un susseguirsi di autori che hanno deciso di accostarsi alla figura di Gesù e al suo mistero per cercare di renderla in immagini, ognuno secondo il proprio punto di vista e la propria sensibilità. Si è assistito alle grandi ricostruzioni da kolossal del cinema americano della classicità, strabordanti di colori, musiche, ricostruzioni scenografiche; si è poi passati ad un modello di riproposizione più scarno, depotenziato di ogni retorica ed artificiosità, attraverso le rivisitazioni dei grandi autori della modernità europea, come Pasolini o Rossellini; per arrivare alle versioni attualizzate postmoderne, come il Cristo "hippie" di Jesus Christ Superstar o il Cristo troppo umano di Scorsese, fino al Cristo completamente sfigurato dal sangue e nel sangue nell'ultima versione di Mel Gibson. In poco più di cento anni di storia del cinema, più di trenta sono state le pellicole dedicate direttamente a Gesù e alla sua figura, e dalle prime Passioni mute fino a quelle contemporanee il volto e la figura di Gesù sono stati completamente modificati e hanno assunto sempre nuove visualizzazioni estetiche. La lettura di questi film "cristologici" permette di osservare, in filigrana, come sia cambiata la sensibilità religiosa, e non solo, della nostra società. Se è vero, infatti, che il cinema è uno specchio della società, o perlomeno è un mezzo che mette in scena la società e il suo "visibile", attraverso la lettura dei film dedicati a Cristo si può analizzare come la nostra realtà si sia evoluta e quali cambiamenti di mentalità l'abbiano caratterizzata, soprattutto per quel che riguarda le tematiche attinenti al sacro e alla fede.