Data di pubblicazione: Aprile 2011
DISPONIBILE : NON AL MOMENTO
€ 20,00
Collana Bloom
L’affermazione che apre questo innovativo e provocatorio saggio è di quelle ardite: l’età moderna è l’età degli ebrei e, in particolare, il XX secolo è stato il secolo ebraico per eccellenza.
Una tale affermazione presuppone naturalmente che tra l’essere ebreo e lo spirito della modernità vi sia una profonda affinità, se non una sostanziale identità. Ma che cosa significa essere ebrei? Facendo propria una divisione antropologica del mondo in «apollinei» e «mercuriani», vale a dire in contadini e mercanti, in stanziali e nomadi, in locali e stranieri, l’autore di queste pagine offre una risposta inequivocabile: gli ebrei sono i piú grandi «mercuriani» della Storia. Un popolo senza patria, dedito alle lucrose attività del terziario, colto, eccentrico per aspetto, lingua, religione, tradizioni. E oggetto dell’odio e dell’invidia degli «apollinei» circostanti.
Alla luce di tali categorie, la stessa storia dell’umanità si rivela come la storia di una progressiva «mercurianizzazione» dell’uomo. E l’età moderna come quel punto di svolta in cui l’uomo diventa universalmente mobile, professionalmente duttile, erudito, ricco per prestigio acquisito e non per natali; diventa, insomma, ebreo.
Cruciali, come emblema stesso della modernizzazione, appaiono soprattutto gli ultimi cento anni di storia ebraica e l’esito delle tre grandi migrazioni: verso l’America, verso il nuovo Stato di Israele, verso Mosca e le altre grandi città dell’Unione Sovietica.
Nel ventennio successivo alla rivoluzione bolscevica del 1917, questa terza diaspora si rivela come quella di maggior successo. In tutta la prima metà del XX secolo, gli ebrei, ancor piú che negli Stati Uniti, prosperarono in URSS, grazie alla promessa di una società nuova che osava combattere il nazionalismo, il capitalismo e l’antisemitismo che di lí a poco avrebbe partorito l’orrore nazista. Per una delle tragiche ironie della Storia, questa promessa si rivelò una crudele chimera. E, all’alba del XXI secolo, di terre promesse per il popolo ebraico non ne sono restate che due: Israele con tutti i pericoli e la precarietà della sua esistenza, e l’America, il paese moderno, competitivo e volto al successo economico. E dunque ebraico piú che mai.
La maggioranza degli ebrei vive oggi in una società «mercuriana» per eccellenza sia per fede ufficiale sia – sempre piú – per appartenenza, una società in cui non vi sono nativi riconosciuti, una società di «nomadi terziari».
Denso di intuizioni illuminanti e trasgressive, scorrevole nell’esposizione e audace nell’analisi, Il secolo ebraico è un’opera che «mira non soltanto a riformulare la nostra comprensione della questione ebraica, ma della questione moderna nel suo complesso» (Daniel Lazare).
Collana Bloom
L’affermazione che apre questo innovativo e provocatorio saggio è di quelle ardite: l’età moderna è l’età degli ebrei e, in particolare, il XX secolo è stato il secolo ebraico per eccellenza.
Una tale affermazione presuppone naturalmente che tra l’essere ebreo e lo spirito della modernità vi sia una profonda affinità, se non una sostanziale identità. Ma che cosa significa essere ebrei? Facendo propria una divisione antropologica del mondo in «apollinei» e «mercuriani», vale a dire in contadini e mercanti, in stanziali e nomadi, in locali e stranieri, l’autore di queste pagine offre una risposta inequivocabile: gli ebrei sono i piú grandi «mercuriani» della Storia. Un popolo senza patria, dedito alle lucrose attività del terziario, colto, eccentrico per aspetto, lingua, religione, tradizioni. E oggetto dell’odio e dell’invidia degli «apollinei» circostanti.
Alla luce di tali categorie, la stessa storia dell’umanità si rivela come la storia di una progressiva «mercurianizzazione» dell’uomo. E l’età moderna come quel punto di svolta in cui l’uomo diventa universalmente mobile, professionalmente duttile, erudito, ricco per prestigio acquisito e non per natali; diventa, insomma, ebreo.
Cruciali, come emblema stesso della modernizzazione, appaiono soprattutto gli ultimi cento anni di storia ebraica e l’esito delle tre grandi migrazioni: verso l’America, verso il nuovo Stato di Israele, verso Mosca e le altre grandi città dell’Unione Sovietica.
Nel ventennio successivo alla rivoluzione bolscevica del 1917, questa terza diaspora si rivela come quella di maggior successo. In tutta la prima metà del XX secolo, gli ebrei, ancor piú che negli Stati Uniti, prosperarono in URSS, grazie alla promessa di una società nuova che osava combattere il nazionalismo, il capitalismo e l’antisemitismo che di lí a poco avrebbe partorito l’orrore nazista. Per una delle tragiche ironie della Storia, questa promessa si rivelò una crudele chimera. E, all’alba del XXI secolo, di terre promesse per il popolo ebraico non ne sono restate che due: Israele con tutti i pericoli e la precarietà della sua esistenza, e l’America, il paese moderno, competitivo e volto al successo economico. E dunque ebraico piú che mai.
La maggioranza degli ebrei vive oggi in una società «mercuriana» per eccellenza sia per fede ufficiale sia – sempre piú – per appartenenza, una società in cui non vi sono nativi riconosciuti, una società di «nomadi terziari».
Denso di intuizioni illuminanti e trasgressive, scorrevole nell’esposizione e audace nell’analisi, Il secolo ebraico è un’opera che «mira non soltanto a riformulare la nostra comprensione della questione ebraica, ma della questione moderna nel suo complesso» (Daniel Lazare).