Chi è l'uomo di fede? Quali sono le sue prerogative e i suoi ambiti di azione? Che significato ha il suo destino solitario? La persona credente è ineluttabilmente sospesa tra individualità e comunità; tra le esistenze diverse - eppur entrambe necessarie -dell'homo faber e dell'homo religiosus; tra cosmo e Rivelazione; tra "natura" e "alleanza"; tra pensiero scientifico e intimo dialogo con Dio. Che ne è di un simile essere umano nella società contemporanea? E destinato, sconfitto, a ritrarsi da essa oppure a svolgere, come sempre è accaduto, un ruolo insostituibile, anche se arduo e spesso incompreso, nel mondo degli uomini? Un gigante dell'ebraismo del XX secolo, il rabbino e pensatore di origine lituana Joseph Dov Beer Soloveitchik, in questo suo scritto si è lungamente interrogato al riguardo, decostruendo la sua contemporaneità e anticipando i tempi presenti. L'uomo di fede è dunque destinato ad essere ancora nostro contemporaneo, nonostante il suo ruolo e la sua missione siano oggi divenuti forse più complessi che in epoche passate. Anche preghiera e profezia restano "fatti" attuali, forme diverse ma convergenti dell'inesausto dialogo tra l'essere umano e Dio, in cui l'individualità della singola persona necessita imprescindibilmente di una comunità orante, scaturente dall'Alleanza e da quest'ultima sempre definita. "La solitudine dell'uomo di fede" è un capolavoro della produzione spirituale e filosofica del Popolo di Israele nel corso del XX secolo, sinora inedito in Italia. La riflessione etica kantiana e, successivamente, della Scuola di Marburgo, l'esistenzialismo cristiano di Kierkegaard e il pensiero dialogico di Buber trovano sì eco nelle pagine di Soloveitchik, ma sono destinati a restare sullo sfondo, come le note basse suonate dalla pedaliera di un organo. La chiave di violino, entro cui si orienta e si dipana la partitura della riflessione di questo rabbino, è invece posta dalla vivente tradizione religiosa di Israele: la Bibbia e il Talmùd, la Halakhah e la Haggadah.