«Siamo tutti sulla stessa barca». Lo abbiamo ascoltato da papa Francesco nel pieno silenzio della pandemia. E poi ce lo siamo ripetuti mille altre volte: o ci salviamo tutti insieme, o periamo tutti insieme. Ma la percezione della comune sorte, in quanto esseri umani, si è ben presto infranta contro la scottante realtà. Il coronavirus non ci ha trovato tutti uguali e non ci ha resi tali. Per le persone che vivono ai margini, per gli invisibili, la pandemia è stata una vera e propria trappola. Come hanno vissuto il lockdown i senza dimora, i rifugiati, i migranti? Come stanno affrontando la crisi socio-sanitaria? L'emergenza e le misure di contenimento della pandemia da Covid-19, per noi "cittadini", hanno portato alla limitazione dell'esercizio di alcuni diritti, ma per coloro che la nostra società relega ai margini, i diritti inviolabili dell'uomo, sanciti anche dalla nostra Costituzione, non hanno ancora trovato una tutela adeguata. Infatti, dove i diritti di tutti, a cominciare dagli ultimi, sono protetti e garantiti, lì c'è una democrazia matura. La conclusione è che forse l'Italia non lo è ancora. Un dialogo serrato e provocatorio sul rapporto tra i diritti e l'emarginazione, a partire da un punto di vista privilegiato: quello delle persone richiedenti asilo, raccolto grazie all'esperienza del Centro Astalli (Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati), di cui Camillo Ripamonti è presidente.
«L'equivoco di fondo del populismo sta nel ritenere che la maggioranza parlamentare si identifichi con il popolo tutto intero, legittimando il comportamento trasgressivo dei leader eletti, che ambiscono a conquistare spazi di potere sempre maggiore. Occorre prendere posizione con coraggio su una serie di sintomi, espliciti indicatori di un cancro della nostra democrazia». Da questa forte provocazione prende le mosse la riflessione di un grande protagonista e testimone della storia politica italiana, che con sguardo lucido lancia un allarme sulle derive istituzionali in atto nel nostro Paese, in Europa e nell'intero Occidente. Pungolato dalle domande di Chiara Tintori, padre Sorge denuncia la superficialità con cui l'attuale politica, ossessionata dal consenso, affronta problemi complessi - immigrazione, povertà, disoccupazione - evitando di indagare, con la necessaria competenza, le radici profonde dei mali che affliggono la società italiana. L'antidoto al populismo è per i due autori un "popolarismo" moderno, certamente ancora ispirato all'Appello ai liberi e forti di don Sturzo (1919) - che con straordinaria lungimiranza aveva posto i fondamenti di una "buona politica" e di una "laicità positiva" -, ma capace di declinarsi oggi nelle nostre società multiculturali e multireligiose.