Giovanni Pascoli è il più grande poeta simbolista del nostro Decadentismo, elaboratore di miti che ne hanno, ben a ragione, consolidato la figura di poeta solitario e di una simbologia agreste virgiliana appartata rispetto ai problemi dell'Italia moderna in cui viveva. E tuttavia non si capisce a pieno questa elaborazione se non si inserisce il poeta contadino delle Romagne e di Castelvecchio proprio in quella realtà inquieta, travagliata da lutti, attentati anarchici e repressioni, dell'Italia di fine secolo e dei primi decenni del Novecento che egli pure cantò in quella raccolta di Odi e Inni ancora ampiamente da riconsiderare nel contesto artistico-letterario culturale della sua produzione di discorsi, interventi a carattere patriottico e umanitario quando fu professore a Messina e nell'ultima fase della sua vita. Pascoli rappresenta questo insieme l'emigrazione, la guerra coloniale, le rivendicazioni proletarie, la continuazione della nazione risorgimentale in quella più moderna) assumendo una posizione "dal basso" di celebratore umile dell'umanità e dei figli della patria emigrante con diramazioni profonde forse non del tutto messe in luce ancora completamente all'interno della sua opera. Su questa linea si muovono i saggi del libro: alcuni antichi, altri più recenti o inediti, lungo la direzione unitaria di valutazione civile, non solo agreste-virgiliana della voce poetica di questo nostro grande autore che chiude un secolo e apre il Novecento.