Pier Paolo Pasolini aveva iniziato fin dal 1958 a concepire la totalità della sua opera come una "messa in scena" degli atti significativi della sua presenza nel mondo. Atti che, alla fine, sarebbero stati incrementati di senso da una Morte (la sua) dotata di una "funzione analoga a quella esercitata dal montaggio cinematografico". L'uccisione di Pasolini dunque - organizzata ritualmente da lui stesso, "regista martire per autodecisione" - è la "ripetizione" di quel "Mito di Morte-Rinascita" che è in realtà il "Rito Culturale" che egli pone a testimonianza finale del suo Manifesto per un Nuovo Teatro del 1968.
I racconti di Giuseppe Zigaina sembrano sequenze di un sogno ricorrente. I "sabati fascisti" passati nelle aule deserte a disegnare sulla lavagna, in una terra di confine in cui tutti parlano sloveno. La casa in cui scopre il suo unico, irripetile universo. Il tentativo di ricostruire quel mondo, l'immancabile nostalgia. Fondamentale la figura del padre, fu lui il primo a "incorniciare" i suoi disegni con un tratto di matita. Poi gli altri incontri: Elisa con il suo profumo mescolato a quello intenso dell'acqua ragia, Tommaso, il professore che dipinge, la violenza degli odori, la confusione di sogni, il decadere di ogni cosa, il verde del paesaggio che entra dentro di lui con ogni variazione di tonalità e trasparenze.