Fuggiasco da Venezia, dopo Campoformio, Jacopo si isola sui Colli Euganei. Qui conosce Teresa e se ne innamora, ma sa che questo è un amore impossibile, perché Teresa è promessa a Odoardo. Jacopo si mette in viaggio per l'Italia, senza una meta e ovunque vede la tragedia dell'oppressione straniera, né lo consolano le bellezze naturali o la saggezza del vecchio Parini, incontrato a Milano. La tragica conclusione è una denuncia al mondo di una doppia delusione.
Delle novelle verghiane lo scrittore Massimo Bontempelli ha detto: "La brevità estrema di Verga è fatta soprattutto di soppressione d'alcuni tratti del racconto. Non esistono più le zone di passaggio. La sicurezza con la quale esse sono state recise, al punto esatto, è spaventosa; sono tagli improvvisi e netti, che riempiono di coltellate tutta la narrazione". Le "coltellate" inferte dal Verga al tessuto compatto del narrare tradizionale sono aperture sulla realtà, rappresentano i varchi attraverso i quali la chiamata stentorea dei simboli giunge direttamente alla coscienza.
"Una vita" è il racconto di una iniziazione impossibile. Giovanissimo impiegato di banca, da poco inurbato, che chiama "malattia" il suo disagio sociale e sogna il successo come riscatto, Alfonso Nitri coltiva il "sogno": il sogno a occhi aperti, la fantasticheria che blocca la presa di coscienza; il sogno notturno di intensa vividezza, in rapporto stretto ma imprecisabile con l'esperienza reale, che fornisce intermittenti illuminazioni ma anche complica e frantuma in labirintici percorsi interni la sua complessiva esperienza. L'enigma non è nei fatti, ma nella natura del personaggio e nella fertilità inventiva con la quale egli, rifuggendo dall'apparente gratuità dei suoi gestì, insiste nel decifrarsi, si contraddice, conforta se stesso, traveste l'esperienza.
Noto anche come "Pentamerone", "Lo cunto de li cunti" raccoglie cinquanta favole, raccontate in dieci giorni da cinque vecchie. Vi si trovano fiabe celeberrime, come "Cenerentola", ma anche racconti meno noti, ugualmente ricchi di invenzioni visionarie e metaforiche, che arrivano a toccare punte di crudele sensualità. Testo originale a fronte.
La vicenda che Giampaolo Rugarli racconta in questo "II buio di notte" offre un grottesco spaccato della società italiana all'inizio del secolo nuovo, quando tutti i valori che hanno regolato le relazioni tra gli uomini sono stati irrisi e travolti dall'ansia della trasgressione, dal desiderio di una libertà sfrenata, della ricerca di un benessere e di un piacere egoisti e immediati. Nonostante tutto, nonostante, cioè, che istituzioni laiche e devote, che ministri di Chiesa e di Stato abbiamo completamente perso qualsiasi senso della misura e forse persine il ben dell'intelletto, la speranza che un Dio misericordioso alla fin fine dia un senso alle cose prova a resistere a ogni assalto, persine di chi dovrebbe esserne il testimone in terra. La tentazione di cedere rassegnati, riconoscendo che il caos l'ha avuta vinta e non c'è più niente da fare, serpeggia insinuante, ma basta la scelta di mettersi a raccontare per dover riordinare gli accadimenti e le memorie, le versioni e le fonti. Così il disastro della deriva in cui siamo sì trasforma in un vero e proprio romanzo giallo, con tanto di morto e assassino, perché una responsabilità e un colpevole devono pur esserci e si tratta soltanto di individuarli.
La Cambogia è stato uno dei grandi amori di Tiziano Terzani. La storia di questo piccolo regno, che custodisce al suo interno i misteriosi templi di Angkor, divenne per lui emblematica della storia dei paesi dell'Asia travolti nel corso del XX secolo dai giochi delle grandi potenze (USA, Cina, URSS). Terzani visitò più volte il Paese tra il 1972 e il 1994, divenne amico del suo re e nemico indignato degli assassini khmer rossi, per denunciare infine come ipocrita e immorale anche l'operato di pace da parte delle Nazioni Unite. Il libro, fondato sui reportage di Terzani dalla Cambogia, contiene anche il racconto scritto in prima persona della sua cattura da parte di combattenti ragazzini, dell'attimo in cui si salvò la vita con una risata - come amava raccontare - e circa cinquanta fotografie originali, scattate spesso da lui stesso.
Forse non tutti sanno che Maurizio Maggiani è anche un valente fotografo. In questo libro dedicato a Genova, Maggiani esplora con il suo obiettivo i luoghi che coincidono con la memoria della città e al contempo con la memoria che lo scrittore ha del suo rapporto con la città. Lo scrittore parla di una visione quasi onirica di Genova, parla di una città che gli è comparsa davanti progressivamente quando da bambino è arrivato da Levante con i genitori per un periodo di degenza in ospedale. Quella visione segna molta parte della sua maniera di "guardare" alla città e di raccontarla. Non ci sono molti monumenti in questo volume. O almeno non i monumenti canonici. Ci sono Sampierdarena e le sue fabbriche, ci sono i vicoli che salgono dal porto, ci sono l'area collinare e il mare-operaio. La stessa cosa accade un po' per la parte narrata, costituita da una serie di segmenti narrativi che "cercano" la città attraverso prospettive sghembe: quella dell'infanzia, certo, ma anche quella di certi personaggi misteriosi che disseminano Genova di scritte, o trovano pertugi di conforto.
Carlo e Alice sono compagni di scuola: stessa classe, stessi professori e, a volte, lo stesso banco. Nei cinque anni che hanno passato assieme hanno condiviso una silenziosa amicizia, fatta di sguardi e sorrisi. Carlo è "naturalmente" imbranato, senza modelli da incarnare, senza maschere. Alice si sente diversa, non omologata, è uno spirito critico e, al contempo, una sognatrice. Entrambi si consumano pensando all'amore ma hanno un cuore ancora poco addestrato e - come vuole l'adolescenza - "sbagliano".
La protagonista, che racconta in prima persona, sta conducendo una ricerca sul campo sulle cooperative di lavoro andaluse. Scopre di aspettare un bambino e torna in Germania, dove vive. Mentre il bambino cresce dentro di lei, è quasi automatico fare i conti con il proprio passato familiare. Torna con la memoria all'amore fra il severo padre siciliano e la bellissima madre piemontese; alla sua infanzia e alle sue difficoltà di adolescente; e infine alla malattia della madre, tremenda e distruttiva. E, per rievocare, affila la scrittura, la rende tagliente, appassionata, senza barriere, senza scampo per il lettore, che non può far altro che seguirne la corrente. Così veniamo travolti dalla eroica quotidianità di una donna che vive in un paese non suo, che parla una lingua non sua, dove deve conciliare speranze, esigenze, sentimenti e aspirazioni, progetti e fantasmi del passato. Per ricavarsi uno spazio privato la protagonista affitta un appartamentino in Grünes Gässchen, una strada poco frequentata. La tranquillità del luogo fa passare in secondo piano il freddo degli spifferi e quel libro sulle cooperative andaluse che non ne vuol proprio sapere di essere completato. Il figlio è nato, cresce, richiede sempre più attenzioni, e arriverà l'eredità della madre: un tumore al seno. Come e quanto si ripeterà il calvario materno? Con quali prospettive? Per i sentieri della malattia la protagonista risale fra ombre e luce verso una difficile e più piena maturità di donna.
Enrico Metz ha deciso di tornare a vivere nella casa di famiglia, di ridurre il lavoro a poche consulenze (è stato fino ad allora il legale di operazioni di portata planetaria, è stato al fianco di tutti gli uomini che contano) e di rimodellare la propria esistenza borghese intorno ad alcuni amici ritrovati, alla famiglia, alla memoria ritrovata. Coinvolto in uno dei più rovinosi crack finanziari del paese, quello dell'ingegner Marani, Metz è stato sotto la luce dei riflettori, ma, grazie alla lungimiranza dell'uomo di cui è stato fedele braccio destro, ha salvato la propria posizione. Ora l'ingegner Marani lo chiama per accertarsi che la "nuova vita" sia cominciata, in realtà per accomiatarsi. Il giorno seguente arriva la notizia della sua morte. Intanto Metz, esperto di legislazione internazionale, è riuscito a ottenere un manipolo di clienti locali, forti, interessanti. Ma il suo ritorno in città non è passato inosservato presso gli altri studi che ne temono la concorrenza. I suoi nuovi nemici, sconcertati e sospettosi, scatenano una campagna denigratoria che lo induce a ritrarsi più drasticamente. Il rumore del mondo svanisce e Metz comincia un lento abbandono di sé a se stesso, una progressiva cancellazione di atti ed emozioni, che non ha nulla di remissivo ma semmai è l'estremo omaggio alla vita, alla bellezza, a quel che poteva essere e non è stato.
Che cosa fa di un uomo un poeta? E che cos'è un poeta? E un bambino? Un provocatore? Un folle? Un profeta? Un cretino? Siamo a Pietroburgo nel 1912: percorriamo la prospettiva Nevskij con Sasa e Pasa e sentiamo che tutto si muove, sta cambiando. Non solo: si mangia pane e poesia e la parola d'ordine è Avanguardia, gettare il passato dal vapore Modernità. Sasa e Pasa arrivano dalla provincia e vogliono studiare matematica, ma non c'è tempo: bisogna pubblicare il libro che rivoluzionerà la sorte della poesia russa. Le sbornie e gli incontri all'osteria della Capra vanno di pari passo alle sbornie e agli incontri dello spirito. Corrono parallele alle comiche vicissitudini di Sasa e Pasa quelle drammatiche di Velimir Chlebnikov, il poeta per eccellenza.
Stefano Benni scrisse "Blues in sedici" dieci anni fa, prendendo spunto da un fatto di cronaca degli anni Ottanta. Questa ballata blues era stata pensata per essere letta in pubblico e infatti la sua prima pubblicazione ha conosciuto molte versioni teatrali. Ora il testo viene riproposto con alcune variazioni che la lettura e, soprattutto l'accompagnamento musicale di Paolo Damiani, hanno suggerito. Protagonisti di questa drammatica storia sono l'Indovino cieco, il Padre, la Madre, il Figlio, Lisa, la Città, il Killer, il Teschio. Otto voci che tornano in scena due volte, a cantare ciascuna il dolore, la rabbia, la disperazione, la speranza.