1942. Quando la sua brillante carriera nel mondo della moda viene interrotta a causa di un incidente, Jessica May viene inviata in Europa come fotogiornalista dalla rivista «Vogue». Lascia così Manhattan e arriva a Parigi nel pieno della seconda guerra mondiale. I pregiudizi degli uomini al fronte sembrano un ostacolo insormontabile per il suo lavoro, ma saranno tre amicizie inaspettate a cambiare per sempre il suo destino: la giornalista Martha Gellhorn saprà incoraggiarla a sfdare le regole, il paracadutista Dan Hallworth la porterà nei luoghi simbolo della guerra, che immortalerà in scatti sensazionali, e una bambina francese cresciuta in un ospedale da campo, Victorine, le insegnerà il vero signifcato dell'amore. Ma il successo ha sempre un prezzo. 2005. Il curatore australiano D'Arcy Hallworth ha appena raggiunto un castello francese per occuparsi di una famosa collezione di fotografe. Ma quello che doveva essere un semplice lavoro si rivelerà l'inizio di un viaggio nel passato, destinato a portare alla luce segreti su sua madre, Victorine.
Sono passati quasi cinque secoli da quando è apparso questo inusitato, sconcertante romanzo, eppure lo stupore che proviamo nel leggerlo è lo stesso di allora. L'identità del suo autore resta avvolta nel mistero, ma una cosa è certa: nessuno prima di lui aveva mai osato tanto. Nessuno aveva avuto l'audacia di demolire tutti i modelli tradizionali e di trasformare il figlio di un mugnaio, Lazaro de Tormes, e la sua miseranda realtà quotidiana in materia di romanzo. Ed è Lazaro, per di più, a raccontarci in prima persona, con esplosiva verve, le indiavolate peripezie che ha passato prima di conquistare un posto nella pubblica amministrazione e l'agognato benessere. Rimasto orfano di padre, apprendiamo, è entrato al servizio di un astuto cieco, tanto abile nello spillare quattrini come guaritore quanto avaro, meschino e manesco. E a questa dura scuola che ha imparato a padroneggiare il gergo e i trucchi della malavita, e a non lasciarsi sopraffare, benché sempre più smunto e sfinito, dai padroni che si sarebbero succeduti: fra i quali spiccano, indimenticabili, un chierico che pare concentrare in sé « tutta la pitoccheria del mondo », un hidalgo che maschera dietro un'aria pomposa e soddisfatta la più nera miseria, e un impudente, ingegnosissimo spacciatore di indulgenze. Peripezie che danno vita a un racconto ameno, pieno di grazia, « a una meraviglia di humour e di umanità, a un torrente d'ingegno e di ironia benevola non meno che implacabile » (F. Rico) : e che ci invitano ancor oggi ad abbandonarci al puro piacere della lettura. Curata dal maggior studioso del Siglo de Oro, questa nuova edizione propone un sorvegliatissimo apparato di note, che illustra citazioni, riferimenti, usi e 'realia' non ovvi per il lettore comune, e, in appendice, il testo critico spagnolo stabilito dallo stesso Francisco Rico.
Sollecitato da alcuni amici della comunità giudaica di Roma, l’avvocato e retore di formazione stoica Erasmo accetta, dopo infinite perplessità, di assumere la difesa del cittadino romano Paolo, esponente di spicco di una nuova corrente interna all’ebraismo, quella dei seguaci di Cristo. Paolo è in disputa con tutti: i fratelli ebrei, le élites romane e, ben presto, il suo stesso avvocato...
«Erasmo era perplesso. Era abituato a clienti che gli raccontavano ogni fandonia possibile e, al confronto, l’invenzione di un Messia da parte di Paolo – come scusa per scaricare su altri la responsabilità di azioni che aveva pianificato egli stesso – gli pareva se non altro piuttosto originale».
«Il fatto che io, da accademico, mi sia messo a scrivere un romanzo per diffondere i risultati della mia ricerca non dipende da un atteggiamento scetticamente postmoderno riguardo alla scienza. Cela piuttosto un illuministico impulso a rendere accessibili i risultati della ricerca scientifica anche a chi non legge opere storico-critiche. Qui, tuttavia, non intendo solo trasmettere conoscenza storica, ma anche rivolgermi alla dimensione esistenziale connessa alla figura di Paolo che, ancora oggi, impone una vera e propria “fusione di orizzonti” tra antico e moderno, portando i lettori a confrontarsi con ciò in cui credono e ciò che fanno, ciò che ricordano e sperano, che amano e odiano».
Gerd Theissen
«Il romanzo su Paolo di Theissen è un capolavoro. Combina una storia emozionante, una storia d’amore commovente e tragica con riflessioni filosofiche e un’immensa conoscenza storica e della cultura dell’epoca. L’entusiasmo di Theissen per Paolo contagerà i suoi lettori!»
Ulrich Luz
Libro Primo: Idee che affiorano: Una borsa con qualche vestito e le matite per disegnare. Quando la moglie gli dice che lo lascia, il protagonista di questa storia non prende altro: carica tutto in macchina e se ne va di casa. Del resto che altro può fare? Ha trentasei anni, una donna che l'ha tradito, un lavoro come pittore di ritratti su commissione che porta avanti senza troppa convinzione dopo aver messo da parte ben altre aspirazioni artistiche, e la sensazione generale di essere un fallito. Così inizia a vagabondare nell'Hokkaid?, tra paesini di pescatori sulla costa e ry?kan (le tipiche pensioni a conduzione famigliare giapponesi) sulle montagne. Finché un vecchio amico gli offre una sistemazione: potrebbe andare a vivere nella casa del padre, lasciata vuota da quando questi è entrato in ospizio in preda alla demenza senile. Il giovane ritrattista accetta, anche perché il padre dell'amico è Amada Tomohiko, uno dei pittori più famosi e importanti del Giappone: abitare qualche tempo nella casa che fu sua, per quanto isolata in mezzo ai boschi, è una tentazione troppo forte. Quando si trasferisce lì, il nostro protagonista capisce che la sua decisione ha dato il via a una serie di eventi che cambieranno per sempre la sua vita... Libro Secondo: Metafore che si trasformano: Nella casa in mezzo al bosco che fu l'abitazione e l'atelier di Amada Tomohiko, il grande artista autore del misterioso quadro «L'assassinio del Commendatore», vive ormai da qualche mese il giovane pittore protagonista di questa storia. La dimora è sperduta, ma non del tutto isolata: nel primo volume, "Idee che affiorano", avevamo conosciuto Menshiki, un vicino ricchissimo e sfuggente mosso da motivazioni solo a lui note. O la piccola Akikawa Marie, studentessa del corso di disegno tenuto dal protagonista, che per una volta sembra abbassare le difese e stringere un legame profondo col suo professore. Per non parlare del Commendatore stesso... Con "Metafore che si trasformano" si conclude l'"Assassinio del Commendatore". Come un mago al culmine del suo potere incantatorio, Murakami Haruki dà vita a un intero universo (a più di uno, a dire il vero...) popolato di personaggi, storie e enigmi che hanno la potenza indimenticabile dei sogni più vividi. Ma non è solo il gusto per il racconto a muoverlo: una volta giunto al termine di questo viaggio visionario, il lettore si scopre trasformato come i personaggi di cui ha letto le avventure, esposto, quasi senza averne avuto consapevolezza, al cuore pulsante della grande letteratura.
«Kate, ti ricordi quell'estate?». È Tom, uno dei suoi vecchi amici di Oxford, a dare la notizia a Kate Channing. Kate se la ricorda bene, quell'estate di dieci anni prima, e quella vacanza con il gruppo di amici del college. Erano in sei, studenti, amici, qualcuno più che un amico. La casa che avevano affittato, nell'idilliaca campagna francese, sembrava uscita da un romanzo: era semplicemente perfetta. Tranne che per un dettaglio. La ragazza della porta accanto. Severine. Kate ricorda bene che, da quando era comparsa lei, la loro enigmatica vicina di casa francese, con il suo foulard rosso e il suo bikini nero minuscolo e la pelle dorata dal sole, nulla era più stato come prima. Fino a quell'ultima notte. Il terribile litigio e tutto ciò che ne conseguì. Finita la vacanza, ognuno prese la sua strada e di Severine, scomparsa nel buio di quella notte, nessuno seppe più nulla. E adesso c'è Tom dall'altro lato della cornetta. «Kate, l'hanno trovata. Hanno trovato Severine. Morta». E mentre la polizia cerca di fare luce su ciò che accadde così tanti anni fa, Kate lotta con i sospetti che, inevitabilmente, si addensano su di lei, e con la propria incerta memoria, per salvare se stessa e il suo terribile segreto. Un thriller in cui il passato non perdona nessuno.
Uno scrittore, reduce da un periodo di crisi, s'incammina per la città dopo un pomeriggio di lavoro. Attraversa strade e piazze, giunge alla periferia e rientra a casa quando l'oscurità è già calata. Che accada poco, in queste pagine, è pura apparenza: si tratta del resoconto di un viaggio attraverso il mondo intero. Lo scrittore racconta del suo scrivere e del prezzo che per questo deve pagare, della sua vita e del poco tempo che gli rimane dopo i momenti di più intenso lavoro: una leggera pigrizia, il piacere di girovagare, la distaccata percezione delle cose quotidiane e dei particolari più insignificanti. E tutto rientra nello scrivere: assieme a un dubbio costante, nei confronti di se stesso e degli altri. Sotto il sole pomeridiano, alla luce del crepuscolo e poi dell'oscurità notturna, Peter Handke percorre una lunga strada attraverso la città e attraverso se stesso, offrendo al lettore una profonda riflessione su una letteratura che si alimenta nel concreto rapporto con la realtà.
Un giallo che svela i meccanismi del giallo. Ognuna delle dodici parti in cui è diviso "L'ambulante" è organizzata in due momenti: a un preambolo che espone le regole e le possibili varianti del genere, fa seguito la narrazione vera e propria del fatto delittuoso. L'ambulante, testimone di un primo e di un secondo omicidio, è il perno intorno al quale ruota la vicenda raccontata, mentre le situazioni sono quelle classiche del giallo: dalla descrizione di un momento iniziale apparentemente tranquillo, si passa al crimine che ne sconvolge l'ordine, all'inseguimento, alla cattura e all'interrogatorio del colpevole, per arrivare al definitivo ripristino dell'ordine. Il lettore, che ha tutti gli elementi sotto gli occhi, può utilizzarli per decidere a suo piacere di che tipo di storia gialla e di che delitto si tratti.
Siamo in Africa sub-sahariana, da qualche parte nell’interno, nel villaggio del clan dei Mulongo. Una notte, un incendio devasta il villaggio e scompaiono dodici giovani uomini. Dove sono finiti? Chi è responsabile? Una delle madri, Eyabe, continua a sognare un paese fatto di acqua e lascia il villaggio alla ricerca del figlio. Il capotribù Mukano si mette in viaggio con la sua scorta per chiedere notizie alla regina bwele, la tribù vicina con cui intrattengono pacifici scambi commerciali. Suo fratello Mutango invece si allontana perché vuole approfittare della situazione e prendere il comando del villaggio grazie all’aiuto del popolo vicino. Lungo il tragitto, i tre personaggi iniziano a intuire una terribile verità: un popolo straniero giunto dal mare rifornisce di armi da fuoco gli abitanti della costa, in cambio di esseri umani. Léonora Miano ci fa conoscere un mondo che si regge sul culto dei morti e degli antenati, sui riti di purificazione e d’iniziazione, un mondo fatto di magia e superstizione, in cui il dio sole cambia nome nel corso della giornata segnando lo scorrere del tempo e le donne si aggiustano la capigliatura prima di andare a dormire per non fare brutti sogni. E proprio la riflessione sulla condizione femminile attraversa buona parte del romanzo. Se le donne della tribù mulongo vivono la contraddizione di detenere il potere di generare ma di essere considerate come bambini fino all’anzianità, proprio a loro sembra affidata l’unica speranza nel finale del romanzo: cantare le gesta dell’estinto popolo mulongo per tenerne in vita il ricordo.
Il 3 ottobre del 1996 l’Accademia di Svezia comunica a Wislawa Szymborska che le è stato assegnato il premio Nobel. Da quel momento, lei così schiva, è costantemente sollecitata: arrivano lettere, telegrammi, manoscritti, richieste e proposte spesso del tutto incongrue. Il telefono squilla anche di notte. Si impone il supporto di un segretario. Quando Michal Rusinek, neolaureato ventiquattrenne, si presenta in casa sua, la trova sgomenta. «Allora» racconta «chiesi cortesemente un paio di forbici e tagliai il cavo. Il telefono smise di squillare. La Szymborska esclamò: “Geniale!”. E fu così che venni assunto». Le resterà accanto per più di quindici anni. In questo libro – basato su ricordi di prima mano – Rusinek getta un fascio di luce su aspetti della grande poetessa rimasti finora in ombra: le sue a volte stravaganti passioni (per i limerick e per il Kentucky Fried Chicken, per Vermeer e per gli oggetti kitsch, per Woody Allen e per Il Circolo Pickwick – e soprattutto per le sigarette); il suo bisogno di solitudine; il modo in cui nascevano le sue poesie («Sosteneva che l’utensile più importante nella casa di un poeta fosse il cestino della cartastraccia») e quello in cui creava i suoi collage; i suoi (complessi) rapporti con l’altro grande premio Nobel polacco, Czeslaw Milosz; i rituali della scrittura e quelli che precedevano qualunque spostamento. Ma inanella anche decine di aneddoti esilaranti, di battute fulminanti e di osservazioni acuminate, in cui ritroviamo l’esprit settecentesco, la sottile ironia e la capacità di stupirsi di una delle poetesse più fervidamente amate dai lettori di tutto il mondo.
A quindici anni anni dalla prima pubblicazione, Carlos Ruiz Zafón scrive una nuova prefazione al libro. Un'edizione celebrativa, impreziosita dalle fotografie suggestive di Francesc Catalá-Roca, fotografo catalano recentemente riscoperto, che alla Barcellona del dopoguerra ha dedicato fotografie profondamente evocative, ideale controparte del testo di Carlos Ruiz Zafón.
"Tuvia era mio nonno. Vera è mia nonna. Rafael, Rafi, mio padre, e Nina... Nina non c'è. Nina non è qui. È sempre stato questo il suo contributo particolare alla famiglia", annota Ghili nel suo quaderno. Ma per la festa dei novant'anni di Vera, Nina è tornata; ha preso tre aerei che dall'Artico l'hanno portata al kibbutz, tra l'euforia di sua madre, la rabbia di sua figlia Ghili, e la venerazione immutata di Rafi, l'uomo che ancora, nonostante tutto, quando la vede perde ogni difesa. E questa volta sembra che Nina non abbia intenzione di fuggire via; ha una cosa urgente da comunicare. E una da sapere. Vuole che sua madre le racconti finalmente cosa è successo in Iugoslavia, nella "prima parte" della sua vita, quando, giovane ebrea croata, si è caparbiamente innamorata di Milos, figlio di contadini serbi senza terra. E di quando Milos è stato sbattuto in prigione con l'accusa di essere una spia stalinista. Vuole sapere perché Vera è stata deportata nel campo di rieducazione sull'isola di Goli Otok, abbandonandola all'età di sei anni e mezzo. Di più, Nina suggerisce di partire alla volta del luogo dell'orrore che ha risucchiato Vera per tre anni e che ha segnato il suo destino e poi quello della giovane Ghili. Il viaggio di Vera, Nina, Ghili e Rafi a Goli Otok finisce per trasformarsi in una drammatica resa dei conti e rompe il silenzio, risvegliando sentimenti ed emozioni con la violenza della tempesta che si abbatte sulle scogliere dell'isola. Un viaggio catartico affidato alle riprese di una videocamera, dove memoria e oblio si confondono in un'unica testimonianza imperfetta. Con "La vita gioca con me" David Grossman ci ricorda che scegliere significa escludere e vivere è un continuo, maldestro tentativo di ricomporre.
Prendendo spunto da Goethe, "maestro del dire essenziale", Handke propone in questo poemetto una sua personale ricerca sul concetto di durata, l'entità che fornisce contorno a quanto ha la tendenza a dissolversi. Connessa al ripetersi degli eventi quotidiani, ma al contempo svincolata dalla permanenza in luoghi o itinerari consueti, la sensazione della durata è l'esito della fedeltà a ciò che l'individuo sente come più profondamente proprio: fedeltà al divenire di una persona, fedeltà a "certe piccole cose" che ci accompagnano "in tutti i traslochi", fedeltà infine a determinati luoghi, un lago, una piazza, una sorgente alla periferia di Parigi. La durata tuttavia non esiste a priori, bisogna cercarla, andarle incontro, trovare un punto di mai definitiva, instabile quiete. La poesia - dice Handke - è uno dei migliori supporti in questa ricerca interiore. Ed è dunque naturale che questo libro di meditazione filosofica sia stato scritto in versi, quasi per bussare alla porta di quella condizione sapienziale tipica della poesia di ogni tempo.