«Sono nato a Calosso, in provincia di Asti, nel 1937. Terminate le elementari sono andato a studiare nel collegio dei Domenicani a Carmagnola: volevo diventare sacerdote. A quindici anni ho ricevuto l'abito di frate... Ma l'anno 1955... Ero abituato che a metà settembre i miei genitori venivano a trovarmi... una piccola festa. Ma quell'anno, anziché la loro visita, arrivò verso fine settembre una lettera di mio padre, con due parole sibilline terribili: è destino che la mamma non possa venire. Più tardi venne lui, da solo, a portarmi la realtà, tremenda: la mamma ha un cancro allo stomaco. Aveva quarantacinque anni. Di mia madre mi rimanevano le lettere, poche: quelle di quell'anno, e le successive. Il contenuto delle pagine che seguono è costituito principalmente da queste lettere e dalla vicenda che esse scandiscono. Vicenda che a sua volta racconta come è possibile e cosa significa soffrire con amore». (dalla presentazione di Pier Paolo Ruffinengo) «Parole sussurrate. Parole di pianto urlate, oppure taciute; pronunciate o scritte, contro le quali nessun transito estremo nulla potrà. Forse ancora segrete; o smarrite. Esse custodiscono: sempre. Ritrovarle. Donarle a mani aperte. Conobbero. Hanno il sapore della terra. La nudità della terra che le nutriva le rivestì della sua forza. Questa terra dai colori dell'uva moscato, bella, che sembra un mezzogiorno d'agosto». (dall'Invito di Fernardo Bibollet)
Sante Pedrelli di Longiano è uno dei poeti in dialetto romagnolo appartenente a quella cerchia ristretta, ma ben valida, che ha tracciato uno dei segni più belli nella poesia italiana del secondo Novecento. Pedrelli, scrive il dialetto di quando ha imparato a pronunciare le prime parole, verso la fine degli anni Venti del secolo scorso, ancora in piena civiltà contadina, come se il mondo fosse rimasto sempre fermo. La poesia di Pedrelli è una lingua fra terra e mare, fra collina e pianura, fra paese e città, mito e realtà della sua terra.
Terribile e dolcissimo, enigmatico e sapiente: chi viene evocato in questo libro è il grande esiliato della coscienza contemporanea, il padre. In tutti i sensi in cui si voglia intendere questa figura così inattuale: il Dio Padre religioso, punto di riferimento di chiunque cerchi con ostinazione e umiltà il senso della propria vita; oppure il padre spirituale, àncora di conforto, confidenza, consiglio, quello che per Alda Merini fu la figura straordinaria di David Maria Turoldo, «un prete che diradava le tenebre, che accarezzava quelle carni rese putride dalla distanza, un prete che era la memoria». Il padre rappresenta simbolicamente l'origine e, nello stesso tempo, il Nulla a cui tutto tende. Lo cerchiamo senza saperlo, come ciechi o sonnambuli, a volte ce ne separiamo con rabbia e superbia, o lo dimentichiamo con insipiente vanità. Ma lui non ci lascia mai, e a noi non è concesso di lasciarlo, sembrano suggerirci questi versi, a tratti visionari e dolenti, ancora una volta di straordinaria potenza espressiva. Rovesciando i termini del rapporto filiale, la poetessa si chiede infatti: «Ma non è l¿uomo che sostiene Dio e , come un eterno Anchise, se lo porta sulle spalle e gli fa attraversare quel fondo di infinita solitudine che è la vita?» Quasi un destino che è impossibile sfuggire o esorcizzare. Un libro toccante che non consola né rassicura, ma interroga con muta insistenza le nostre coscienze di uomini moderni che credono di non avere più bisogno né di santità né, tantomeno, di un padre.
L'edizione, curata dal maggior esegeta ungarettiano, Carlo Ossola, pur mantenendo l'impostazione e i contenuti del volume predisposto dall'autore stesso nel 1969, lo arricchisce di una nuova sezione di "poesie ritrovate" e di alcuni testi inediti, e lo correda di una preziosa appendice di testi preparatori. L'apparato variantistico, grazie al ritrovamento di nuovi testimoni a stampa, è stato corretto e aggiornato in diversi punti, nonché fatto precedere da una sezione di indici delle raccolte. Oltre che di tutti i materiali contenuti nel "Meridiano" "storico", il lettore potrà inoltre disporre di un apparato di commento, costituito da una introduzione a ciascuna raccolta e di un commento a ciascuna poesia, che oltre a dare conto anche delle varianti manoscritte utili alla comprensione del contenuto e dell'elaborazione delle liriche, dà voce soprattutto all'autore, attingendo estesamente ai suoi autocommenti, editi (epistolari, interviste, prose, saggi) e inediti: per questa sezione i curatori si sono avvalsi di una sistematica esplorazione dell'archivio di Ungaretti e di quelli dei suoi corrispondenti, finora ignorati dalla critica.
Nel suo poemetto "Beppo", scritto nel 1817, Byron si cimenta per la prima volta con l'ottava rima della poesia comico-satirica italiana, che riutilizzerà nel più tardo Don Juan. Qui la voce narrante racconta la storia di Laura, una dama veneziana il cui marito Beppo è disperso in mare da tre anni. Senza troppi rimpianti, lei si considera ormai vedova e prende come amante e cavalier servente il Conte. Assieme al suo cicisbeo Laura va una festa di carnevale, dove viene ammirata per la sua bellezza da tutti e in modo particolare da un turco. Questi non è altri che il marito il quale è stato fatto prigioniero e ridotto in schiavitù, poi liberato da una banda di pirati a cui si è unito convertendosi all'Islam. Adesso, da uomo ricco, è tornato dalla moglie e al cristianesimo. Senza falsi moralismi o ipocrisie, senza condanne della corruzione morale e della frivola vanità della società veneziana, la vicenda volge al lieto fine.
Descrizione dell'opera
L'autore stesso ha consapevolezza che oggi è difficile, quasi impossibile, non solo 'fare' poesia (amorosa, civile o religiosa), ma anche dire qualcosa di sensato e soppesato sull'arte in genere e in particolare sul poetare.
«La poesia è come una icona di parole. Chi fa icone vere è un iconografo; libero dallo sguardo prospettico di questo mondo, si affissa alla luce dorata dell'eterno. Il poeta è un logo-grafo; anzi, in certo senso è un olo-grafo. Come il pittore di icone scrive colori e forme sull'oro di Dio, così il poeta scrive parole sull'oro dell'eterno. E come l'iconografo è mosso dallo Spirito, così il poeta è ispirato dal medesimo Spirito».
Attraverso un percorso che intreccia l'azione del poeta con la riflessione teologica, Mazzanti arriva progressivamente a ricondurre il nucleo essenziale dell'evento poetico all'evento di Cristo, Verbo fatto carne.
Sommario
(Sul)la poesia. Capitolo I. Capitolo II. Capitolo III.
Note sull'autore
Giorgio Mazzanti, sacerdote della diocesi di Firenze, ha insegnato teologia presso la Facoltà teologica dell'Italia centrale (Firenze) ed è ora docente di sacramentaria presso la Pontificia Università Urbaniana in Roma. Presso le EDB ha pubblicato due serie di volumi che affiancano alla riflessione teologica: I sacramenti simbolo e teologia. 1. Introduzione generale (32003) e 2. Eucaristia, Battesimo e Confermazione (22000); Teologia sponsale e sacramento delle nozze. Simbolo e simbolismo nuziale (42004); Mistero pasquale mistero nuziale. Meditazione teologica (22003); Persone nuziali. Communio nuptialis. Saggio teologico di antropologia (2005), Da Cana la luce. Teologia e spiritualità del mistero nuziale (2005), l'immagine e l'elaborazione poetica: Il canto della Madre (32003); Nella adorata luce. Voce di sposo e voce di sposa. Un poema nuziale (2003); Ultimo Avvento (2005).
Il libro prende il titolo da un breve poema, "Gita Meridiana", ispirato alla scoperta della tomba del Giovane Principe ad opera del paleontologo Giacomo Giacobini, avvenuta a metà degli anni Ottanta, vicino alla Grotta delle Fate. L'opera è ambientata negli anni Ottanta, in cui è scritta, in Liguria: prima dall'autostrada corrente lungo il mare, col sottofondo delle automobili che attraversano il buio delle gallerie, poi, in una sorta di rapimento meridiano, l'incanto di una sosta in cui l'unico suono è il gracidìo dell'autoradio, e l'improvvisa visione della grotta e del principe sepolto. Con Gita Meridiana la preistoria entra nella mitologia della poesia occidentale. Un altro breve poema costituisce l'asse portante del libro, "II Cimitero dei Partigiani", viaggio metafisico che è anche considerato uno dei capolavori letterari sul mito della Resistenza. Il viaggio all'Ade del poeta, la discesa agli Inferi, il dialogo con le ombre dei giovani partigiani morti per la nostra libertà rappresentano al massimo grado di pietas il percorso di "Gita Meridiana" alle fonti dell'esperienza poetica come sintesi bruciante di visione e compassione.
Un libro di spudorata bellezza, fatto di poesie "timide e scalze", che non seguono la critica alla moda e non sono pagate dai dollari del Nobel. Twardowski è riconosciuto nome di punta se pur meno noto (poichè la notorietà non era nei suoi interessi) della migliore poesia polacca, e quindi tra le migliori del mondo se consideriamo la fila che di là viene di poeti altissimi, da Herbert a Milosz, dalla Hartwig alla Szymborska. Le sue poesie hanno una forza prodigiosa e chiara. Sia che presentino un colloquio con le creature della natura, sia che sottointendano i tanti drammi normali di tutti noi a riguardo dell'amore, della morte, e delle domande che agitano i cuori umani, queste poesie vivono di una grazia violentissima e gentile. Esatte nelle loro illuminazioni straordinarie, a cui l'ironia da a tratti i bagliori di uno splendore feriale, le poesie di Twardowski si sono affermate come punto di riferimento per tanti lettori e gente comune. La sua fede bambina e potente, semplice e sensibilissima alle sfumature della vita, non è innanzitutto un tema, ma l'aria in cui vibra una voce carica di umanità e simpatia per la condizione di tutti noi. Così che questo libretto diviene quel che la poesia rivela d'essere quando è veramente grande: un dono inaspettato e preziono
Il nome di Dante è nel pensiero di molti indissolubilmente legato al titolo della sua opera maggiore: la "Divina Commedia". È facile dimenticare che il grande poema fu solo il punto d'arrivo di un percorso iniziato nella prima giovinezza. Leggere le "Rime", dai sonetti giovanili alla vitalistica esuberanza di "Sonar bracchetti" e alle atmosfere oniriche di "Guido, i' vorrei" fino alle liriche poi raccolte nella "Vita Nuova", come "Donne ch'avete" e "Tanto gentile", significa accompagnare Dante nel lungo viaggio alla ricerca di una propria voce poetica che avrà come meta finale la "Commedia". Teodolinda Barolini analizza da punti di vista innovativi e spesso inediti le singole rime, facendo luce sull'evoluzione artistica e ideologica del poeta e sui rapporti che intercorrono tra le "Rime" e il capolavoro della maturità.
Nell'arco di poco più di un decennio - da quel non troppo lontano 1996 in cui fu insignita del Premio Nobel per la letteratura - Wislawa Szymborska è diventata un autore di culto anche in Italia. Né questo vasto successo deve meravigliare. Grazie a un'impavida sicurezza di tocco, la Szymborska sa infatti affrontare temi proibiti perché troppo battuti - l'amore, la morte e la vita in genere, anche e soprattutto nelle sue manifestazioni più irrilevanti - e trasformarli in versi di colloquiale naturalezza e (ingannevole) semplicità. Il volume raduna l'intera produzione poetica della Szymborska, inclusa la recentissima raccolta "Qui", apparsa in Polonia nel 2009.
Alla lontana, alla prima luce del mondo di Alberto Toni è un libro dalla bellezza misteriosa e sfuggente. E come a volte accade dei libri in cui la bellezza si manifesta naturalmente, si stenta a capire la ragione di questa emozione di lettura. Non si incontrano eventi numinosi, scorrendo queste pagine, né lampi rivelatori, quei nodi snodati che danno il passo rivelante a molti libri brucianti e durevoli. Qui invece tutto scorre come in un film limpido e come animato da una quotidianità fuori dal tempo. Le poesie dedicate ai grandi trovatori sono forse una chiave sottile di lettura, in un poeta che peraltro non ama, o sa ben celare, ogni intenzione allegorica: certo Toni «trova», semplicemente, scrive occasioni, nel tempo che scorre. Alberto Toni ha scritto sempre versi riconoscibili, ha insomma una sua cifra personale, una propria voce, ma mai come in questo libro l’ha portata ai vertici. Un poeta che nel primo decennio del terzo millennio ci presenta un canzoniere in cui dominano la lezione di Orazio e Ungaretti, lo scorrere quieto del tempo e la percezione lirica molecolare del mondo: «non c’è motivo di resa, anzi per te nuove/ note, quegli accordi, senti, da foglia/ a foglia, da mare a mare, se mi raccogli/ e mi porti con te solo per un momento». Roberto Mussapi.