Ogni epoca, con le sue culture, ha segnato semanticamente la parola "tristezza", è interessante perciò vedere se le tante sfumature di senso contengono tratti comuni. Molti uomini di pensiero (storici, filosofi, teologi, antropologi, psicologi, sociologi) hanno dedicato e dedicano molte pagine allo studio della tristezza nel loro specifico ambito di ricerca. Guidati dalla loro precomprensione della realtà hanno cercato di comprenderne la natura, per cogliere le varie forme con cui si manifesta, per capirne le ragioni e i rimedi. Anche quando si afferma di disinteressarsi di essa, non si può far a meno di coglierne la presenza in molte esistenze, come ebbe a scrivere Montaigne nei suoi Essais.
Dal dialogo con alcuni autori rappresentativi dello sviluppo della teologia cattolica negli anni immediatamente successivi il concilio Vaticano II nascono queste note per una introduzione all'etica teologica. Il rinnovamento invocato dal concilio si inserisce nel movimento più ampio di dialogo della Chiesa cattolica e dei suoi teologi con la modernità. Fu lo stesso papa Giovanni XXIII, nel discorso di apertura del concilio (11 ottobre 1962), a indicare la necessità di esporre il messaggio cristiano con gli strumenti del pensiero moderno. A ciò si era giunti con un lavoro, iniziato molti anni prima, da parte di teologi che volevano andare oltre gli schemi rigidi e ormai sclerotizzati di una filosofia e teologia scolastica e di accademia. Il Vaticano II costituisce un punto di partenza per nuovi necessari sviluppi e comunque un punto di non ritorno. La riflessione sui temi di ordine morale ha conosciuto una rapida accelerazione, ma oggi, in verità, siamo bel oltre quell'accelerazione perché non solo è tumultuosamente sopraggiunta una postmodernità, dove il poststa a significare la quasi impossibilità di definire chiaramente i caratteri dell'epoca nuova dopo il "moderno", ma siamo in fase di superamento della postmodernità. È questo il contesto socioculturale entro cui si ripresentano alcune categorie fondamentali della morale "tradizionale": il rapporto tra fede e morale, la libertà e la coscienza, il peccato, la conversione, il discernimento. Senza alcuna pretesa di esaustività l'autore si augura di suscitare le domande fondamentali che orientano il nostro agire pratico.
La povertà, con le molteplici forme di sottosviluppo ad essa collegate, è uno dei "segni dei tempi" più eclatanti della nostra epoca. Essa coinvolge non solo intere popolazioni di paesi che soffrono un sottosviluppo endemico, ma anche vasti settori delle popolazioni dei paesi ricchi e tecnologicamente più avanzati. Diverse campagne di lotta alla povertà su scala mondiale sono miseramente naufragate. Inoltre, si è rafforzata la dottrina che povertà e poveri siano un "danno collaterale" inevitabile se si vuole perseguire il progresso dell'umanità. Se nel passato la teologia ha proposto una sua lettura della povertà, oggi è necessariamente coinvolta nell'analisi della povertà e nella lotta per il suo superamento. Ma come si può parlare della povertà, in prospettiva teologica, come "segno dei tempi", vedere in essa un "luogo teologico"? Come può essere una fonte di conoscenza per la riflessione teologica, di concerto con gli altri luoghi teologici? L'attenzione (la "scelta preferenziale") ai poveri non è più solo una virtù individuale, ma deve essere coscienza di chiesa. Di più, l'auspicio programmatico del neoeletto vescovo di Roma, Francesco, «come vorrei una chiesa povera e dei poveri», spinge a domandarsi se il "dei poveri" sia una nota puramente congiunturale o non invece una nota costitutiva della chiesa.