Difficile collocare criticamente la figura di Walter Benjamin: la sua originalità di pensatore e la sua opera - saggi teoretici, aforismi, impressioni di viaggio, ricordi - trascendono la storia, la filosofia o la letteratura nella loro accezione corrente. Questa antologia, pubblicata per la prima volta nel 1962 da Einaudi, raccoglie i testi più rappresentativi, dai saggi filosofici "Per la critica della violenza", "Destino e carattere", "Sulla facoltà mimetica", a quelli più letterari su Baudelaire, Kafka e Goethe: tutti scritti rivelatori di una particolare forma di saggismo in cui le "affermazioni sulla vita" non possono prescindere dall'analisi di un determinato "paesaggio culturale" (il saggio sulle "Affinità elettive" diventa un trattato sull'amore e sul matrimonio nell'epoca moderna); e che mettono in luce le risorse di un laboratorio di pensiero tra i più fervidi e originali del Novecento.
«L'importanza che Benjamin attribuiva a L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (e da ciò l'esigenza di una edizione come questa, che finalmente permettesse di comprendere nel loro insieme la sua genesi e tutte le sue "varianti") risulta evidente dalla nota lettera a Kraft del dicembre del 1935: egli afferma con enfasi di ritenere di avervi fissato la cifra dell'"ora del destino" che è scoccata per l'arte. Non può trattarsi, quindi, di una semplice fenomenologia delle piú recenti tendenze, né dell'apprezzamento del loro carattere rivoluzionario rispetto alla espressione artistica tradizionale, e neppure di una teoria delle nuove Muse: fotografia e cinema. L'ambizione è incomparabilmente maggiore: si tratta di comprendere la crisi del fatto artistico, dell'arte in quanto tale, di una filosofia della crisi dell'arte, destinata, per ciò stesso, ad assumere i toni di una vera e propria filosofia della storia».
Il narratore è un breve saggio scritto da Walter Benjamin nel 1936 e destinato a rimanere nel tempo un testo di riferimento per qualunque riflessione sullo statuto del narrare. Il suo pretesto è l'opera di Nikolaj Leskov, scrittore russo contemporaneo di Tolstoj e Dostoevskij, ma lo scopo è ricostruire la figura del narratore, i grandi e semplici tratti autentici che lo contraddistinguono, riportarne alla luce il significato originario. Ma non solo. Raccontando con una precisa drammaturgia da dove mai venga il narratore, Benjamin ci lascia in eredità la descrizione ideale di che cosa ancora oggi dovrebbe rappresentare chi narra storie, una figura che, innalzata nella cerchia dei maestri e dei saggi, «sa orientarsi sulla terra senza avere troppo a che fare con essa».
Ad accompagnarci alla scoperta di questo piccolo saggio è Alessandro Baricco che, con una nota introduttiva, una conclusiva e un commento puntuale a ogni capitolo, ci aiuta a comprendere perché Benjamin, meglio di ogni altro, può introdurci a riflettere su cosa mai veramente sia «il sortilegio della narrazione».
«L'arte di narrare volge al tramonto perché vien meno il lato epico della verità, la saggezza. Ma si tratta di un processo che ha origini lontane. E nulla potrebbe essere piú sciocco che vedere in esso solo un "fenomeno di decadenza", per non dire un fenomeno "moderno"; mentre è solo un fenomeno concomitante di forze produttive storiche, secolari, che a poco a poco ha espulso la narrazione dall'ambito del discorso vivo e insieme fa percepire una nuova bellezza in ciò che svanisce».
Parigi, Marsiglia, Weimar, Napoli, San Gimignano, Mosca. Negli anni venti Benjamin scrive per giornali e riviste una serie di articoli-reportage sulle città dove gli capita di soggiornare. Libro postumo, assemblato da Peter Szondi nel 1955, viene qui riproposto in un'edizione amplita di tre nuovi scritti. "Alla base delle descrizioni delle città straniere di Benjamin non troviamo motivi meno personali di quelli che ispirarono "Infanzia berlinese". Ma ciò non significa che egli non abbia saputo vedere quei luoghi nella loro realtà. Ché un paese straniero riesce a operare la magica trasformazione del visitatore in fanciullo solo se gli si mostra così pittoresco e così esotico come una volta era apparsa al bambino la propria città. Simile al fanciullo che sta con occhi attoniti nel labirinto inestricabile, Benjamin nei paesi stranieri si consegna con tutto il suo stupore e tutta la sua avidità alle impressioni che lo investono. A ciò deve il lettore quelle immagini che non potrebbero essere più ricche, più colorite, più precise. Il linguaggio metaforico aiuta Benjamin - analogamente alla struttura da lui preferita: l'articolazione in brevi periodi - a dipingere le immagini di città come miniature. Nella loro sintesi di lontananza e vicinanza, nella loro incantata realtà, esse assomigliano a quei globi di vetro in cui la neve cade su un paesaggio, che furono fra gli oggetti preferiti da Benjamin". (Dalla postfazione di Peter Szondi).
Il libro è una autobiografia anomala, una sorta di mosaico, in cui Benjamin condensa le esperienze e la topografia della propria infanzia, ridando anima ai sogni facendo rivivere le ore e i luoghi di magia, e al contempo gli angosciosi presentimenti di un bambino ebreo nella Berlino dell'epoca. Ed è forse questa ambiguità il tratto più marcato dei trenta brani (più dodici frammenti proposti in appendice) che compongono il libro: "scavare" nell'infanzia, negli strati nascosti perduti della vita, per riattivare questa "promessa di felicità" che è patrimonio di ogni essere umano ("La fata, grazie alla quale si ha il diritto a un desiderio"), senza tuttavia dimenticare che questa possibile felicità è perennemente esposta ai venti della storia.
Nato dal desiderio di raccogliere in un "libriccino per gli amici" "aforismi, scherzi e sogni" e pubblicato nel 1928, "Strada a senso unico" si presenta come un montaggio di microtesti. Gli aforismi sono organizzati secondo una struttura particolare, in quanto ogni capitolo è presentato con il nome di un negozio, di un edificio, di un segnale o di un manifesto, in modo che la disposizione d'insieme finisce per dare l'idea di una città allegorica. È un documento del nuovo atteggiamento e della svolta determinatasi in Benjamin nel '24. Un libro che proietta il lettore nella vorticosa vita della Germania degli anni della grande inflazione. (Nuova edizione accresciuta)
"La figura di Benjamin è di quelle che si prestano più difficilmente alla definizione e collocazione critica. Saggista e critico letterario, il significato e l'intenzione dell'opera trascendono tuttavia i limiti della critica, o della storia letteraria nella accezione corrente. La sua originalità di pensatore fu piuttosto tutt'uno con la sua attività d'interprete e di critico, e si costituisce fondamentalmente solo in essa... La presente raccolta comprende proprio quelle che si possono considerare le eccezioni dell'opera di Benjamin: come il saggio su diritto e violenza, quello sulla traduzione, o il manoscritto inedito sulla lingua." (Dall'introduzione di Renato Solmi).
Le 19 "tesi" Sul concetto di storia, risalenti al 1942 ma pubblicate nel 1950, costituiscono una tappa fondamentale nell'evoluzione del pensiero di Benjamin. Il volume ne offre l'edizione critica, con il testo tedesco nelle sue successive stesure e varianti, una nuova traduzione italiana e un ricco materiale illustrativo. Agli apparati dell'edizione tedesca si sono infatti affiancati estratti da altre opere, frammenti o appunti inclusi nel "Passagen-Werk". Sono testi che documentano stadi significativi della riflessione di Benjamin in ordine ad alcuni concetti o figure centrali ripresi nelle "tesi". Il volume offre anche alcuni testi provenienti da una piccola cerchia di intellettuali, amici e interlocutori.
Una perlustrazione di uno dei periodi più oscuri, grevi e avari di capolavori dell'arte tedesca ed europea. Le caratteristiche stesse di quella polverosa produzione drammatica sono però altrettanti elementi che rispondono idealmente allo sguardo indagatore di Benjamin: infatti, il vero oggetto del libro è la stessa ideologia e principio ispiratore dell'arte contemporanea dei primi decenni del secolo, che proprio dall'impulso di contestazione dell'armonia classicista e della compostezza formale dell'opera d'arte traeva la propria fonte di ispirazione.