Parigi, 1938, Vittorio Pozzo, commissario tecnico della Nazionale, festeggia la Coppa del mondo vinta dall'Italia per la seconda volta consecutiva. «Nulla al mondo di più bello», afferma commosso. È l'apogeo del calcio italiano con i suoi campioni e le loro storie fantastiche: Meazza, il fuoriclasse nato poverissimo e diventato grazie al calcio l'uomo più popolare della sua Milano; il cannoniere Silvio Piola, sottratto in nome della ragion di Stato alla Pro Vercelli e consegnato alla Lazio; il 'Fornaretto' Amedeo Amadei e gli altri alfieri giallorossi che riusciranno infine a portare lo scudetto sulle sponde del Tevere; e ancora, il bolognese Biavati, imprendibile inventore del 'doppio passo', e lo scatenato triestino Colaussi. Mentre l'Italia tutta festeggia, ha inizio l'odiosa discriminazione razziale e i venti di guerra travolgono il pallone. La fortissima Austria viene 'annessa' alla Germania, in Francia i nazionalisti storcono il naso di fronte alla presenza dei primi giocatori arabi e neri fra i ranghi della Nazionale, in Russia le purghe decimano intere squadre, gli esuli baschi e catalani in fuga dalla Spagna di Franco si rifugiano a giocare in Messico. Quando la parola spetterà agli eserciti, i calciatori italiani saranno chiamati a mandare avanti sino all'ultimo momento possibile il torneo di Serie A, la 'distrazione di massa' che più di ogni altra dovrebbe garantire una parvenza di normalità al Paese prossimo a trasformarsi in campo di battaglia. Con la pace, ecco Valentino Mazzola chiamare il Toro alla carica rimboccandosi le maniche della casacca; l'epopea granata restituirà orgoglio e fiducia a un'Italia battuta, umiliata e smaniosa di riscatto sotto le nuove insegne repubblicane. I campioni del pallone sono gli spiriti benevoli che presiedono al 'meraviglioso giuoco', gli uomini che hanno regalato emozioni ai padri dei nostri padri e, così facendo, hanno accompagnato e reso unica la storia del nostro Paese.
A partire dal 1926, la storia del calcio italiano e quella del regime s'intrecciano in maniera indissolubile: il ras romagnolo Leandro Arpinati diventa il dominus di uno sport che esce dal suo periodo pionieristico e assurge a passione nazionale. Sono stagioni trionfali per il Torino del 'Trio delle meraviglie' e per la Juventus del 'Quinquennio d'oro', per l'Ambrosiana di Meazza e per il Bologna 'che tremare il mondo fa'; sono gli anni della Roma 'testaccina' e della Lazio di Silvio Piola, protagoniste di derby infuocati e determinate a portare il primo scudetto nella capitale. A marcare l'epica del calcio italiano arrivano, sollecitati con forza dalla dittatura, i grandi trionfi degli Azzurri: i titoli mondiali del 1934 e del 1938, e quello olimpico ottenuto nel 1936. Pozzo e Schiavio, Baloncieri e Ferraris IV, Cesarini e Borei diventano in queste pagine personaggi a tutto tondo, e intrecciano i loro destini con quelli di gerarchi, dame, attrici e intellettuali dell'epoca - da D'Annunzio a Malaparte, da Emilio Lussu a Carlo Rosselli. Un affresco che fa rivivere, tra fasti e contraddizioni, il fatale inclinarsi di una società conformista verso il disastro della seconda guerra mondiale.
Nel nostro Paese si gioca a calcio dai tempi in cui Federico Nietzsche baciò un cavallo a Torino. E, in quegli anni, una certa dose di follia e uno spirito anticonformista erano necessari anche per rincorrere in calzoncini una palla, sforzandosi di applicare le regole d'uno sport britannico chiamato association football. Quel gioco, per noi, è diventato nel tempo una faccenda maledettamente seria. Così, se si volesse eleggere un 'padre del calcio italiano' non ci si accorderà mai: il vogatore Bosio o il visionario Duca degli Abruzzi? Herbert Kilpin, il viscerale figlio del macellaio, o il compassato medico Spensley che, al peggio, imprecava in sanscrito? Per certo, furono tutti pionieri, e il gioioso contagio, originato a Torino e Genova, raggiunse ben presto ogni città del Paese, dando vita a squadre, competizioni e rivalità che ancor oggi infiammano i cuori. Ripercorrere l'infanzia del calcio comporta un viaggio emozionante ai confini del mito: qui si raccontano gli anni d'oro di Genoa, Pro Vercelli e Bologna, e i primi trionfi di Milan, Juventus e Inter. Si narra del caleidoscopio delle squadre attive a Roma, Firenze e Napoli all'alba del XX secolo, e degli esordi della Nazionale; di esotiche tournée, scissioni e disordini di piazza; di atti d'eroismo e burle indimenticabili e, ancora, di come il 'meraviglioso giuoco' sopravvisse all'inaudito massacro della Grande Guerra, per divenire fenomeno di massa nella prima, turbolenta, metà degli anni Venti...
"La spedizione italiana sul Karakorum, 1909. In piedi, il secondo da destra, è il Duca degli Abruzzi, il grande esploratore. Io sono quello piccolo, a sinistra, con il cappello. Alla mia destra, seduto sulla cassa, c'è lo Zio Achille. Vicino a me, il mio amico Jampalì. È l'ultimo giorno al campo base. Alle nostre spalle, la montagna nasconde il suo segreto". Età di lettura: da 6 anni.
L'infanzia trascorsa a Bologna nello stabile centrale del lotto Iacipì, sotto l'ala protettiva di una nonna cattolicissima, una combriccola di zii comunisti e due genitori insegnanti, convinti che la società italiana sia conformista e superficiale; un matrimonio a quattro anni con Sissi la Piagnona e giochi all'aperto turbolenti e scalmanati; anni divertenti, senza dubbio, ma fuori dal cortile ci sono troppi pericoli. È per questo che il narratore viene catapultato nell'avventuroso mondo inventato da Baden-Powell, in compagnia di Akela, Bagheera, Balù e un intero branco di nuovi amici. Dopo "La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco" e "La vita quotidiana in Italia ai tempi di Silvio", è la volta della vita quotidiana al tempo dei lupetti, fra uscite all'aria aperta, scoperte e promesse non sempre facili da mantenere.
Ancora un attimo prima che accadesse, sembrava impossibile. Invece è successo. Se non sono miracoli questi, di cosa mai sapremo ancora provare meraviglia?
«Quando il Silvio, raccontatore di miracoli impareggiabile, si affacciò sulla scena politica, ancora si ripeteva in giro che la televisione era lo specchio della società. Era un'interpretazione ormai inadeguata: presto la società italiana sarebbe entrata dentro quello strano specchio, tutta intera come Alice e, come lei, sarebbe partita per il viaggio più colorato e spaventoso della propria Storia.»
Enrico Brizzi racconta con ironia l'Italia dagli anni Ottanta a oggi. Nell'agra commedia nazionale c'è posto per passioni e amicizie, Pertini e Supergulp, Berlinguer e Drive in, gli anni del Pentapartito e lo strano destino di un narratore esordiente. E poi il Silvio, l'ascesa al potere, i pubblici scandali, la fine del mito. La Prima e la Seconda Repubblica del nostro Paese sempre in attesa di un'altra primavera.