Chi sono gli oligarchi, sono loro il motore della storia? O la massa dei molti? È questo forse il dilemma principale per chi si cimenti nella ricerca storica. Per Luciano Canfora scrivere storia vuol dire lottare contro gli effetti del progressivo allontanamento dai fatti: in tale lotta "il pathos narrativo, la partecipazione emotiva, non il volgare patetismo, non sono un cascame del lavoro storiografico ma al contrario l'indizio della perdurante vita del passato dentro di noi". Compito dello storico è dunque quello di districarsi tra i documenti e le invenzioni letterarie, in bilico sul limitare di congetture che tentano di scrutare ciò che le fonti non dicono. In queste pagine l'autore interroga l'antichità a proposito di grandi questioni sempre vitali, se non addirittura pungenti, come la giustizia, la cittadinanza, la libertà, il falso: ricordandoci che l'aver avuto ragione "è esso stesso un elemento storico, cioè soggetto al mutamento".
Chi sono gli oligarchi, sono loro il motore della storia? O la massa dei molti? È questo forse il dilemma principale per chi si cimenti nella ricerca storica. Per Luciano Canfora scrivere storia vuol dire lottare contro gli effetti del progressivo allontanamento dai fatti: in tale lotta "il pathos narrativo, la partecipazione emotiva, non il volgare patetismo, non sono un cascame del lavoro storiografico ma al contrario l'indizio della perdurante vita del passato dentro di noi". Compito dello storico è dunque quello di districarsi tra i documenti e le invenzioni letterarie, in bilico sul limitare di congetture che tentano di scrutare ciò che le fonti non dicono. In queste pagine l'autore interroga l'antichità a proposito di grandi questioni sempre vitali, se non addirittura pungenti, come la giustizia, la cittadinanza, la libertà, il falso: ricordandoci che l'aver avuto ragione "è esso stesso un elemento storico, cioè soggetto al mutamento".
"In forma strisciante o in forma aperta, per molte generazioni, la guerra civile era, nelle città greche, "lo stato abituale, regolare, normale: si è nati, si vive, si morrà in essa. Non vi è atto, ambizione o pensiero che non si rapporti ad essa". Riconoscere che un conflitto è stato una guerra civile, cioè una guerra "tra cittadini", dipende dal vincitore. È il vincitore che concede, o non concede, al vinto tale riconoscimento. Che non significa annullare la distinzione tra torti e ragioni. Gli Ateniesi non compirono mai questo sforzo. Nel loro calendario ufficiale l'anno della guerra civile (404/3) era indicato con una formula quasi surreale: "non governo". Come se quell'anno non fosse mai esistito." Ripercorrendo l'opera storiografica di Senofonte, che di quei fatti fu protagonista, Luciano Canfora fa riaffiorare gli snodi drammatici che segnarono il sanguinoso epilogo fratricida della trentennale guerra contro Sparta: dall'elezione dei trenta "tiranni" alla riscossa dei "partigiani democratici" di Trasibulo fino alla violazione del patto di amnistia con l'eccidio di Eleusi. Un "diario" fazioso e apologetico, quello senofonteo, che va dunque raffrontato con le testimonianze di segno opposto, ma non per questo meno prezioso nel restituirci in presa diretta la crisi di un sistema in cui la manipolazione demagogica del consenso e il conflitto tra interessi di ceto, ideali e Realpolitik (temi di sorprendente attualità) aprirono crepe insanabili.
"In forma strisciante o in forma aperta, per molte generazioni, la guerra civile era, nelle città greche, "lo stato abituale, regolare, normale: si è nati, si vive, si morrà in essa. Non vi è atto, ambizione o pensiero che non si rapporti ad essa". Riconoscere che un conflitto è stato una guerra civile, cioè una guerra "tra cittadini", dipende dal vincitore. È il vincitore che concede, o non concede, al vinto tale riconoscimento. Che non significa annullare la distinzione tra torti e ragioni. Gli Ateniesi non compirono mai questo sforzo. Nel loro calendario ufficiale l'anno della guerra civile (404/3) era indicato con una formula quasi surreale: "non governo". Come se quell'anno non fosse mai esistito." Ripercorrendo l'opera storiografica di Senofonte, che di quei fatti fu protagonista, Luciano Canfora fa riaffiorare gli snodi drammatici che segnarono il sanguinoso epilogo fratricida della trentennale guerra contro Sparta: dall'elezione dei trenta "tiranni" alla riscossa dei "partigiani democratici" di Trasibulo fino alla violazione del patto di amnistia con l'eccidio di Eleusi. Un "diario" fazioso e apologetico, quello senofonteo, che va dunque raffrontato con le testimonianze di segno opposto, ma non per questo meno prezioso nel restituirci in presa diretta la crisi di un sistema in cui la manipolazione demagogica del consenso e il conflitto tra interessi di ceto, ideali e Realpolitik (temi di sorprendente attualità) aprirono crepe insanabili.
L’inverosimile lettera dello spartano Pausania al re di Persia, i discorsi che si leggono nella Storia di Tucidide, la missiva di Bruto fatta passare per falsa. E ancora la corrispondenza “falsovera” di Grieco, che accese i dubbi di Gramsci; e il celebre “testamento” di Lenin, rimaneggiato da Stalin e inghiottito per anni dalla macchina di partito. Sono solo alcuni esempi clamorosi di doppi giochi e trucchi testuali messi in atto per deviare il corso della lotta politica. Luciano Canfora li esamina in un’indagine sul fi lo del rasoio testuale, e ci guida in un universo dove i lapsus, i periodi che si ingarbugliano e gli errori di scrittura si rivelano preziosi indizi di scottanti verità. Il risultato è un racconto avvincente che mette a nudo miti e leggende e soprattutto dimostra che la fabbrica del falso non conosce soste. Ma che anche il più abile dei falsari si può smascherare.
Chi era Artmidoro di Efeso?
Perché si mise in Viaggio?
E cosa ha a che fare
con l’erudito ottocentesco
Costantino Simonidis?
Un’indagine appassionante
su un personaggio
sfuggente e misterioso
che dall’antica Grecia
arriva fino ai giorni nostri
Artemidoro di Efeso, il più grande geografo di età ellenistica, resta un personaggio enigmatico. La sua vastissima opera in ben undici libri è andata perduta, ma le sue tracce sopravvivono, e vanno interrogate. Lo ha fatto Luciano Canfora in questo saggio suggestivo e coinvolgente. Dalla difficile missione diplomatica a Roma al lungo viaggio a Occidente, oltre le Colonne d’Ercole, al ritorno a Oriente: fino alla costa etiopica, ai margini di un mondo nel quale verità e leggenda si mescolano e abbagliano. La dolorosa perdita della prima descrizione del mondo dovuta a questo antico, infaticabile viaggiatore può essere risarcita dallo sconcertante papiro emerso dalle nebbie una quindicina d’anni fa e attribuito in tutta fretta ad Artemidoro? Questo libro risponde al quesito attraverso una grande inchiesta. Ricompone i pezzi del puzzle e approda in ambienti politico-intellettuali europei dell’Ottocento, al centro dei quali si muove, con inquietante disinvoltura, il greco Simonidis, uno dei più grandi falsari del suo tempo. Ed è seguendo le sue tracce che Canfora giunge a svelare la “prova” che pone la parola fine all’affascinante enigma sulla paternità del misterioso papiro.
“Ritrovare” l’autore che non c’è più, riempire un vuoto, è la spinta principale alla creazione del “falso”. Lo raccontammo in un precedente libro (La storia falsa) apparso in questa collana. E fu il secolo XIX, nel campo dei manoscritti, il secolo dei falsi così come il XX lo fu per le opere d’arte. Le stesse, benemerite, raccolte di frammenti di autori perduti erano, in tal senso, quanto mai suggestive.
Ci fu chi si diede a occasionali cimenti e chi invece lo fece con metodo e per “mestiere”.
E ci fu uno che volle riportare in vita i geografi greci che non c’erano più. Artemidoro parve, a quel virtuoso, cui è dedicata la seconda parte di questo libro, un terreno su cui edificare e un modello in cui rispecchiarsi. Egli incominciò presto a frequentarlo immettendo frammenti noti di lui nelle proprie opere. Poi un disegno maggiore prese corpo. E nel fare un Artemidoro egli ricorse ai manoscritti principali dei geografi, di cui era avido cercatore. Da quei manoscritti mutuò persino i simboli che immise nel suo. Alcuni (il Vatopedi 655 del Monte Athos) li aveva anche materialmente saccheggiati.
Perché lo fece? Per porsi nel solco di una tradizione erudita e patriottica della Grecia “oppressa”? Per emulare figure del secolo precedente quali Meletios o Niceforo Theotokis? Per colmare, con uno stravagante para-Artemidoro, un vuoto nella raccolta (canonica per i greci) degli Zosimadai (Vienna 1807) modellata su quella, insuperata, di John Hudson (Oxford 1698), dove per l’appunto il maggiore geografo ellenistico ovviamente mancava?
Il vincolo che collega la nostra cultura alla lingua, alla storia, al pensiero dei greci e dei romani non va ricercato in una presunta "identità" tra gli antichi e noi. Al contrario, è opportuno, e più produttivo, sforzarsi di capire le differenze; e proprio la riflessione su questa distanza ci consentirà di conoscere il senso che il passato e la sua eredità hanno per noi. È questa la via seguita da Luciano Canfora nei saggi scritti per questo volume, incentrati su alcuni temi cruciali: il metodo degli storici antichi, il rapporto tra storiografia e verità, la visione della storia come mescolanza, come fiume "grande e lutulento" che assimila e trascina le più diverse tradizioni culturali.
Un colpo di stato organizzato ad Atene, alla fine del V secolo a.C., da quattrocento intellettuali. Un processo politico clamorosamente demagogico in cui il capo della rivoluzione fallita, Antifonte, pur pronunciando "la miglior difesa che la storia giudiziaria ricordi, viene condannato e giustiziato. Un grande storico, Tucidide, che dissemina nella sua opera, "La guerra del Peloponneso", informazioni segrete provenienti dal vertice della cospirazione, e che verrà assassinato mentre la sta affidando alla scrittura.