Questo è solo uno dei temi affrontati nella fitta conversazione tra Paolo De Benedetti e un interlocutore non credente, Maurizio Scordino, che ne raccoglie il pensiero attraverso i ricordi familiari, i ritratti di quanti hanno avuto a che fare con lui e la rilettura delle molte pubblicazioni teologiche dell’ex direttore editoriale di Bompiani e Garzanti.
Temi importanti, ma poco discussi, come possono esserlo quelli legati al concetto di sacrificio offerto a Dio, alla similitudine tra la sofferenza degli animali e la Shoah e al complesso rapporto tra fede e vegetarismo. In Paradiso ad attenderci è il resoconto di un lungo dialogo tra due amici, affettuoso ma non accondiscendente, che propone una nuova direzione per affrontare argomenti di solito visti con sufficienza o come estemporanei, nella benevola (quanto spesso involontariamente offensiva) percezione che l’ambiente, religioso o meno, a essi concede.
Chiedere scusa è un'esperienza talmente quotidiana da aver perso il nesso profondo con il perdono, che invece mantiene l'aura di un concetto religioso, attinente alla sfera del sacro e al senso del peccato. Da una fenomenologia di tale esperienza, emerge in queste pagine la stretta correlazione tra la colpa e il male, la giustizia e il perdono, come si declinano nel pensiero ebraico: alla riconciliazione, che prende il nome di shalom, fanno da contrappunto i temi della teshuvà, espiazione e perdono, e del tiqqun, la restaurazione dell'ordine infranto del mondo. Un'analisi cui corrisponde, nella Bibbia, il lessico della misericordia che, per Paolo De Benedetti, si declina in tre momenti emblematici: la meditazione-confessione della presenza di Dio nella storia; l'uscita, individuale e collettiva, dal peccato; la promessa messianica.
Dio e la Creazione, il Diluvio e la Torre di Babele, la chiamata di Abramo, la scala di Giacobbe e la sua lotta con l'Altro: sono alcune delle pagine bibliche che il grande, acuto esploratore delle Scritture Paolo De Benedetti - sul confine tra ebraismo e cristianesimo, tra Antico e Nuovo Testamento - scandaglia in dialogo profondo e appassionato con il pastore Maurizio Abbà, della Chiesa valdese.
Un'insolita ricerca, con scoperte e provocazioni spesso sorprendenti, per ripensare la nostra immagine tradizionale di Dio. Etty Hillesum scriveva dell'Antico Testamento: "Che forza primordiale vien fuori dall'Antico Testamento e che radice "popolare", anche. Magnifiche figure, forti e poetiche, vivono in queste pagine. Un libro davvero avvincente, aspro e tenero, ingenuo e saggio, interessante non solo per ciò che dice, ma anche perché permette di conoscere chi lo dice".
La religione è una scala che l'uomo lancia per tentare di raggiungere Dio, invece per la fede è Dio stesso che va e viene continuamente su una scala per raggiungere l'essere umano.
"Se così si può dire" è la traduzione più fedele dell'espressione ebraica kivjaqôl, che indica il paradosso per cui alla Torah è richiesto di esprimere qualcosa su Dio con il linguaggio umano, inevitabilmente inadeguato. L'espressione, con tutto ciò che ne consegue, oggi è familiare a molte persone, grazie all'insegnamento che Paolo De Benedetti ha offerto a generazioni di italiani che oggi guardano con occhi nuovi al rapporto fra ebraismo e cristianesimo. Anche dopo il concilio Vaticano II, infatti, la mentalità comune ha continuato a considerare l'ebraismo una religione superata, la radice di una pianta i cui frutti, fiori e foglie erano tutti e solo del cristianesimo. Proprio per questo l'autore non ama l'espressione "radice ebraica" e ritiene che la ricerca di un dialogo con l'ebraismo vivente significhi accettarlo come esso è e si percepisce nel presente, non come è stato o vorremmo che fosse. Da qui la necessità di una teshûvah, di una "conversione", da parte di tutte le Chiese cristiane. Prefazione del card. Carlo Maria Martini.
Il "saluto" è un'esperienza quotidiana, ma è anche parte della stessa essenza dell'uomo: il suo ingresso nel mondo, il suo “essere con gli altri", sin dall'infanzia è sancito da questo gesto elementare, pre-linguistico. Salutare, e ricambiare il saluto, è espressione del riconoscimento, sociale e affettivo.
I lineamenti per una fenomenologia del saluto si trovano nelle pagine di Massimo Giuliani, esplorando ciò che esso ha di persistente pur nella diversità dei modi e nell'oscillare dei significati: dall'essere in relazione al colmare una distanza, dal salutare per primi al congedarsi per sempre nell'ultimo saluto. Alcuni esempi, e un moltiplicarsi di riflessioni, in cui traluce la profondità di questo atto.
Sulle radici bibliche e rabbiche dello scalmo ("pace" e "bene") si sofferma Paolo De Benedetti, gettando luce sul nostro debito - talvolta impensato - verso la tradizione, nel senso ebraico della parola: ciò che si tramanda come in una catena.
"Rabbi Uri diceva: Le miriadi di lettere della Torà corrispondono alle miriadi di anime di Israele; se nel rotolo della Torà manca una lettera, esso non è valido; se manca un'anima nella lega di Israele, la Shekhinà non posa su di essa. Come le lettere, anche le anime devono collegarsi e diventare una lega. Ma perché è proibito che una lettera nella Torà tocchi la sua vicina? Ogni anima d'Israele deve avere ore in cui è sola con il suo Creatore.
Un antico maestro della Mishnà, Ben Bag Bag, diceva: "Volgila e rivolgila, tutto vi è in essa [nella Torà]" (Avot 5,22). Tutto è nella Torà, ma bisogna voltarla e rivoltarla: Dio ha parlato, ma l'uomo deve metterci il commento. Intorno a questi due pilastri dell'ebraismo si "aggirano" le pagine che seguono: si aggirano perché non hanno una meta, un punto di arrivo, ma vogliono solo essere momenti di una frequentazione infinita (una ruminatio, direbbero i Padri) della Torà scritta e orale. Ci sono tanti modi di introdurre al giudaismo: infatti il giudaismo è plurale, e questa pluralità nelle idee, nei tempi, nei luoghi, nelle identità - è la sua forza. Perciò molte sono le porte per entrarvi e viverci, o anche solo per conoscerlo. Una porta è quella che anche il Nuovo Testamento indica nel farsi carne, cioè realtà variamente terrena e sensibile, della parola (per Israele la Torà, per i cristiani Gesù). Fuori di questa concreta "vocalità" divina - se così si può dire -, di Dio non sapremmo mai nulla, se non, appunto, chiamarlo Ain, "Nulla", o Mi?, "Chi?", secondo i maestri della qabbalà. Ma Ain è divenuto Anì, "Io", e perciò abbiamo un Tu e non siamo più soli.
Una teologia della creatura oggi non può non guardare, a occhi spalancati, dentro il cuore pulsante del vivente. L’idea che un filo d’erba possa vibrare di sensibilità entrando in viva relazione con il mondo umano emerge dalla novella di Luigi Pirandello, Canta l’Epistola.
E solo una teologia come quella di Paolo De Benedetti è capace di cogliere la creaturalità di una bellezza deperibile e inerme come quella di un filo d’erba. Non in virtù di una sensibilità ecologica estesa anche alle cose inanimate – un sentimento pur lodevole che oggi però è abbastanza diffuso, almeno nelle anime più avvertite – ma in virtù di una precisa lettura della Parola biblica, che interpreta la storia a partire dal basso, dall’infimo, dal perdente.
Per elaborare una "teologia" che non abbia più al proprio centro soltanto l'uomo, ma, assieme a lui, l'animale, e ogni essere vivente, ci voleva un teologo come Paolo De Benedetti. Il cui pensiero si articola non intorno ad assiomi, evidenze, certezze. Ma intorno al "forse". Al dubbio. Alla logica dei "doppi pensieri". Solo chi, come lui, ha un senso così forte della precarietà dei giudizi umani e della imperscrutabilità di quelli divini, può arrivare a elaborare una teologia che metta continuamente in discussione se stessa: fino a spostare il centro della propria attenzione dalla creatura umana, che lo ha da sempre altezzosamente occupato, alle creature "minori", che sempre sono state ai margini. (Gabriella Caramore)
DESCRIZIONE: La Morte di Mosè, il primo libro di Paolo De Benedetti, aveva dischiuso come orizzonte di ricerca l’ambivalenza del Dio biblico tra il sacro e il santo, tra idolatria e fede, quasi invitando ad approfondire questa oscillazione nel testo di riferimento del giudaismo rabbinico, il Deuteronomio. È quanto accade ne La chiamata di Samuele, dove ad essere interrogato è il concetto stesso di Legge (Torà). In quanto Legge del Dio dell’esodo, la Torà accompagna, illuminandolo, il cammino dell’uomo. La Legge non uccide ma, ascoltata e osservata, libera. È la ragion d’essere, suggerisce l’autore, della halakhà («via» o «norma di comportamento»): interpreta e attualizza i precetti nei quali si manifesta, permanendo misteriosa, la volontà di Dio; il precetto custodisce, nonostante il differirsi della redenzione, l’attualità dell’alleanza, «della benedizione e dell’amore di Dio».
Un’interpretazione del Deuteronomio, e di altri testi biblici, che accompagna il lettore alla scoperta di quel senso – «il settantunesimo» – nascosto, proprio per lui, nel testo. Come a dire: la Legge, in forza della sua esteriorità, è l’epifania di un Dio che ha dismesso le vestigia sacrali. Un Dio con il quale, come mostra l’episodio di Samuele, «l’incontro è facile e difficile insieme: impossibile e pur necessario, offerto e pur nascosto, come un dono che l’uomo deve solo vedere e prendere».
COMMENTO: Nuova edizione rivista e ampliata dell'ormai classico libro di De Benedetti, dove l'autore mostra il significato attuale, liberatorio, della legge - Torah - ebraica.