Ricordare è faticoso, meglio non sapere: sembra questa la regola aurea di tanta storiografia ufficiale. Lorenzo Del Boca fa l'esatto contrario. Vuole ricordare tutto: anche i lati oscuri su cui si è sempre preferito tacere. «Il maledetto libro» è innanzitutto questo: uno sconvolgente viaggio nel tempo attraverso due secoli di bugie sfacciate e vergogne nascoste, animato dal desiderio di rendere giustizia alla storia. Anche a rischio di toccare i nervi scoperti della nostra identità nazionale. I Savoia furono sovrani illuminati o squallidi approfittatori? I garibaldini furono eroi senza macchia o un'accozzaglia di avventurieri mossi dalle più disparate motivazioni? L'unità d'Italia fu il sogno di un intero popolo o una frottola ideologica per camuffare la sete di conquista delle élite? Siamo certi che la lotta contro i banditi del Meridione non sia stata in realtà una feroce occupazione coloniale? E ancora: cosa descrivono i terribili diari dei soldati nelle trincee della Grande Guerra? Un'impresa gloriosa o una carneficina insensata, voluta da cinici politicanti e condotta da ufficiali codardi e incapaci? E il fascismo fu davvero, come in troppi ancora pensano, un regime autoritario ma di specchiata onestà? Dalla rilettura della nostra storia - quella non "taroccata" - emerge un sottile filo rosso che, in maniera contorta ma senza soluzione di continuità, si dipana dall'Italia di ieri per attorcigliarsi intorno a quella di oggi...
Lavarono con il loro sangue le pietraie del Carso e i dirupi dell'Altopiano. Nel corso del conflitto più spaventoso della storia, diedero la vita per una patria che non avevano mai conosciuto se non con la maschera di un potere centrale lontano, arrogante e rapace. Ogni anno si celebrano con enfasi insensata le ricorrenze della Prima Guerra Mondiale, ma da nessuna parte si sente dire che l'assoluta maggioranza delle vittime era gente del Sud. Un'intera generazione spazzata via. Figli del Meridione, contadini poveri, braccianti, piccoli artigiani, quasi per metà analfabeti, giovani di vent'anni che furono strappati alle loro famiglie e alla loro terra e mandati a morire in lande remote, tra montagne da incubo e pianure riarse. Si sacrificarono per gli interessi di quelle élite economiche che sfruttavano la loro terra e per il tornaconto di una nuova classe politica che li trattava con ferocia o disprezzo. Finirono a decine di migliaia nelle trincee, stretti nella morsa del fango e del gelo, sotto una pioggia perenne di bombe. Diventarono carne da cannone, numeri da inserire nelle statistiche dello Stato Maggiore, bandierine che i generali spostavano sulle mappe con noncuranza. Vennero massacrati sull'Isonzo e a Caporetto, combatterono con disperazione e con valore sul Piave, lanciati contro un nemico che non conoscevano e che non avevano motivo di odiare. Conobbero la paura, la morte, l'eroismo. Erano i nostri nonni, i nonni del nostro Sud. L'esercito dei terroni. Prefazione di Pino Aprile.
Un conflitto che ha accatastato venti milioni di morti, probabilmente il più sanguinoso dell'intera storia umana (per non parlare delle epidemie collegate, altrimenti si superano i sessanta milioni), è nato dalle menzogne di un duplice omicidio e dalla fucilazione di 50 innocenti. Un conflitto che decisero economia, politici e un manipolo di invasati... ma poi a combattere dovettero andarci i soldati. E fu una carneficina. Lettere e diari dal fronte sono stati sempre trascurati - al più lasciati alle cure delle Pro Loco che, di tanto in tanto, potevano scoprire qualche scritto di un loro concittadino. Ma quei fogli raccontano un'altra guerra. Una guerra insensata, da combattere con armi vecchie, indumenti inadeguati, cartine sbagliate. Con i piedi a mollo nel fango delle trincee, i gomiti appoggiati sulla neve, facendo colazione a un passo dai corpi dei caduti. Altro che l'epica e l'eroismo, altro che medaglie al valore. Dalla voce dei soldati traspare il dolore, la sofferenza, la necessità di obbedire a ordini spesso insensati e la voglia di mandarli tutti a quel paese. "Il nostro peggior nemico era Cadorna" dichiara efficacemente uno di loro. Rivelando segreti, Lorenzo Del Boca racconta l'altra faccia della Prima guerra mondiale, quella che la retorica ufficiale e i libri di scuola nascondono. Perché dovremmo deciderci finalmente a onorare il debito di riconoscenza nei confronti dei nostri nonni.
Perché un secolo e mezzo dopo l'unificazione - più presunta che reale - il nostro Paese non è ancora diventato una nazione? Perché dopo aver (mal)fatto l'Italia non siamo ancora riusciti a fare gli italiani? E perché proprio non riusciamo a diventare semplicemente un Paese normale? Principalmente perché la storia che ci raccontano e ci raccontiamo è per molti versi un castello di bugie. Ma forse è arrivato il tempo di guardare al nostro passato con occhio più disincantato, meno ideologico e, persino, più irriverente, per comprendere che cosa è successo - per davvero - nei decenni e nei secoli che hanno rappresentato l'incubazione del nostro DNA. E di farlo con prospettiva rivolta al presente. Perché la storia è maestra di vita: indica la via della quotidianità e, in qualche modo, suggerisce il percorso della politica. Per correggere i nostri gravi (e, qualche volta, gravissimi) difetti è necessario vedere da dove vengono, in modo che l'esempio e l'esperienza pregressa possano consentirci di trasformarli in piccole (e, forse, piccolissime) virtù. Prefazione di Pierluigi Battista.
L'Unità d'Italia è stata un'annessione forzata. L'incontro di Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II è un falso storico. Molti dei Padri della Patria sono stati politici corrotti, ufficiali mestatori, traffichini di regime, burocrati inefficienti e magistrati faziosi. Secondo l'autore, il vero Risorgimento assomiglia ben poco a quello che ci hanno raccontato.
Perché la Sicilia ha ventisettemila dipendenti pubblici se in Lombardia sono nove volte di meno?
E perché una sacca di sangue costa tre euro al Nord ma al Sud arriva a dieci?
Ci sono tante cose che ci fanno arrabbiare: gli sprechi, le inefficienze, le sperequazioni e ognuna delle mille male-qualcosa che popolano le cronache quotidiane.
Perché? La risposta non viene da differenze culturali o caratteriali che, con facile qualunquismo, si potrebbero individuare. La ragione affonda le radici nella storia: giusto quella di 150 anni fa. Non un’Italia unita e nuova ma un regno sabaudo allargato, che annette, conquista, impone ferocemente le sue regole e le sue misure. Un tradimento degli accordi e dello spirito originario.
Se oggi ci si lamenta per le troppe tasse che gravano sul contribuente, diventa inevitabile rammentare che l’andazzo prese il via giusto un secolo e mezzo fa, quando si inventarono imposte con troppa fantasia e nessuna logica. E se adesso tutti parlano di federalismo è perché si riconosce implicitamente che sono stati commessi errori imperdonabili che diventa urgente rettificare.
Fra gli sconfitti del Risorgimento ci sta a buon diritto il Nord. Il Nord vero, quello dei campi e delle fabbriche, che non soltanto si mantenne estraneo ma in qualche passaggio si dimostrò assolutamente ostile a ciò che si andava profilando. E che, a guerre d’Indipendenza terminate, si accorse che di vantaggi non ne esistevano, che i bilanci dello stato erano in rosso e che qualcuno – loro – li doveva ripianare. I conti sono ancora aperti, e i polentoni continuano a pagare.
In un Paese in cui una memoria condivisa pare impossibile, gli avvenimenti che fondano la nostra storia nazionale – il Risorgimento e la proclamazione dell’Unità – non fanno eccezione. A una versione tradizionale che spesso gronda di romanticismo e tentazioni agiografiche, si contrappongono resoconti controcorrente che stigmatizzano incongruenze e ipocrisie dei Padri della Patria. Questo serrato dialogo si propone finalmente di individuare un terreno di verità comune tra ipotesi storiche a volte enormemente distanti.
Le cinque giornate di Milano sono state un’azione velleitaria e mal organizzata o, invece, il primo vero tentativo di “fare l’Italia”?
Vittorio Emanuele II è il “re con la faccia da macellaio”, sciupafemmine, circondato da affaristi e non alieno ad allungare le mani nel bilancio dello Stato, oppure il sovrano che, assecondando lo spirito che prendeva corpo nel Paese, ne ha ascoltato il “grido di dolore”, facendo della provinciale Penisola una delle moderne potenze europee in soli vent’anni?
L’impresa dei Mille è davvero una cavalcata di eroi, di uomini coraggiosi disposti a rischiare tutto per la causa, o piuttosto una sceneggiata teatrale e mal recitata?
E l’Italia che alla fine viene proclamata e si affaccia alla ribalta della storia è una nazione con i piedi d’argilla, perché edificata su troppe furbizie, o un giovane Paese che ha in sé gli strumenti per progredire?
Fino ad oggi, le due correnti di pensiero, gelose ognuna dei propri archivi e della propria memoria, non hanno accettato né dialogo né confronti, preferendo un isolamento che scalda il cuore e irrobustisce i preconcetti. Ma la barriera del silenzio reciproco deve essere abbattuta. E la ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia rappresenta una preziosa opportunità.