Il sesto volume del Dizionario Dinamico di Ontologia Trinitaria intende esplorare l'inventio della ontologia trinitaria nel secolo IV, con un'attenzione specifica sull'incontro fra l'intelligenza ecclesiale della rivelazione e quella corrente della filosofia tardoantica che ha segnato in profondità l'elaborazione della teologia patristica, il neoplatonismo. La questione di tale rapporto non può essere affrontata con pertinenza se non si fa riferimento all'"aporia del fondamento" che ha travagliato l'indagine filosofica sin dai suoi albori: l'essere è uno o molteplice? Essa si qualifica infatti per la postura tesa a includere in un unico ordine ontologico il primo principio e il mondo, senza così riuscire però a declinare persuasivamente il rapporto di unità e molteplicità. L'evento di Gesù Cristo, vissuto e interpretato nel solco dell'affermazione ebraica della trascendenza di Dio, propizia nel IV secolo un pensiero del rapporto uno-molti che, pur facendo i conti con esse, stravolge le categorie greche con lo sviluppo di un pensiero formalmente trinitario. A 1700 dal Concilio di Nicea, il volume è uno studio a più voci, al contempo storico e teoretico sull'incontro tra filosofia ed evento del Cristo e, in ultima analisi, sulla pensabilità e dicibilità dell'E/essere.
Il centro di questo libro è fuori del libro, in altri libri: nell'opera di Vincenzo Vitiello, con la quale gli autori si sono nel tempo confrontati. Per gli ottant'anni del filosofo, hanno accolto volentieri l'idea di proseguire un colloquio, che riprende figure e domande fondamentali del pensiero occidentale - da Platone a Aristotele, da Kant a Hegel, da Nietzsche a Heidegger a molti altri -, in una pluralità di proposte che dimostra la fecondità del dialogo tenuto nel corso di questi anni da alcune delle maggiori voci della filosofia contemporanea.In filosofia non esistono tradizioni che non vengano sempre nuovamente rimesse in questione. La forma stessa del mettere in questione, del logon didonai, ha da essere interrogata circa il suo statuto e la sua legittimità. Una scepsi radicale attraversa dunque il pensiero filosofico. «Chi vuole che la sua parola abbia senso, deve farsi forte di ciò che a tutti è comune e ha senso»: così si legge in un frammento di Eraclito. Nei testi che qui si presentano, la filosofia e i filosofi che la praticano danno forza a ciò che è loro comune, ma sperimentano anche l'infirmitas di questa forza, secondo la lezione più cara a Vincenzo Vitiello. Interventi di: M. Adinolfi, A. Bellantone, S. Benso, G. Bensussan, M. Cacciari, G. Cantillo, G. Carillo, J.-F. Courtine, B. de Giovanni, D. Di Cesare, G. Di Tommaso, M. Donà, F. Duque, R. Esposito, A. Fabris, F. Ferrari, E. Forcellino, B. Forte, R. Gasparotti, G. Giorello, G. Goria, E. Lisciani-Petrini, N. Magliulo, E. Mazzarella, E. Mirri, G. Moro, G. Petrarca, G. Rametta, E. Redaelli, V. Rocco Lozano, R. Ronchi, E. Severino, C. Sini, A. Tagliapietra, L. V. Tarca, F. Tessitore, F. Tomatis, A. Trione, F. Valagussa, C. Invernizzi.
Ha perfettamente ragione Vincenzo Vitiello, quando, nell'introduzione a questo volume afferma: "Pochi scrittori - poeti, romanzieri, ma anche critici e storici, filosofi e scienziati - abitano il linguaggio al modo in cui accade a Carlo Invernizzi, poeta". Le cui parole vogliono davvero essere "cose". E, proprio per questo, prendono drasticamente le distanze da quelle che tutti pronunciamo ogni giorno... parole vuote, magari efficaci, ma sempre fraintese, impotenti o quanto meno fragili. Carlo Invernizzi cerca, infatti, una parola che sia in grado di essere la cosa stessa. La roccia, l'altura, la luce, il colore, il confine, il dolore, la gioia... devono dunque lasciarsi contorcere, dire, ma anche disdire, dalle parole in cui "dovranno" a tutti i costi trovare casa. Per questo, nessuno dei lemmi "intuiti" dal nostro poeta avrebbe potuto risolversi nella mera conformità a una sintassi e a una concettualità che, del mondo, non sarebbero mai riuscite neppure a lambire il cuore imprendibile. Lo stesso in relazione a cui, invece, Invernizzi osa; azzardando il disegno di uno sguardo che, trapassando inquieto, di soglia in soglia, sappia farsi davvero poesia. Postfazione di Massimo Donà.
Oggetto di queste pagine è l'anima, ossia la condizione di possibilità di ogni conoscenza; quella che i greci chiamavano psyché e che i moderni avrebbero concepito più specificamente come luogo della coscienza, per quanto già a Freud questa coscienza mostrasse di essere tutt'altro che padrona del proprio campo d'azione. Nel corrispondere al proposito di parlare dell'anima, e soprattutto di dirla iuxta propria principia, l'autore ripensa e ridetermina alla radice le grandi articolazioni che a questo oggetto d'indagine sarebbero state date in prima battuta da Aristotele e in seconda battuta da Kant. E conseguentemente rovescia il senso per lo più attribuito alla "domanda filosofica", mostrando come il thauma da cui viene alimentato l'anelito conoscitivo non sia provocato tanto dal molteplice e dalla sua esistenza, quanto dal suo immediato palesarsi quale espressione dell'intrascendibile distinguersi dell'indistinto, perché quello che l'anima incontra, ogni volta che le capita di aver a che fare con il mondo (ovvero, ogni volta che si sa come anima), è in verità sempre il medesimo.
Poeta e filosofo di caratura europea, apprezzatissimo da Nietzsche e posto ai vertici della cultura occidentale da Emanuele Severino, Giacomo Leopardi rappresenta una delle punte più alte mai raggiunte dal pensiero moderno proprio per aver, di quest'ultimo, saputo riconoscere i limiti e le costitutive contraddizioni. Leopardi è pensatore rigoroso e "spietato", e il suo corpus ha ancora molto da raccontare, a partire da quello "Zibaldone" che rappresenta una sfida affascinante per ogni interprete. Questo libro racconta il complesso rapporto intrattenuto da Leopardi nel corso di un'intera esistenza con il Cristianesimo e con le grandi questioni della metafisica occidentale: il confronto con Dio, la lotta tra l'essere e il nulla, il ruolo dell'arte. Un percorso che intreccia ricerca poetica e tormento spirituale, e nel quale la letteratura, pur con tutte le sue ombre, appare forse l'unica via per raccontare il mistero della natura.