I racconti di William Faulkner sono scaturiti dalla stessa materia dei grandi romanzi dell'autore. Vi ritroviamo così il microcosmo della Contea di Yoknapatawpha, trasfigurazione di quella di Lafayette, nel suo Mississippi, con quel particolare métissage prodotto da un secolo e mezzo di invasioni coloniali, immigrazioni e conflitti tra etnie, classi e generazioni: indiani Chickasaw e schiavi neri braccati come selvaggina, bianchi poveri e benestanti, tagliagole portuali e gente perbene, vigliacchi e altruisti capaci di occasionali eroismi, sopravvissuti della guerra civile e reduci della prima guerra mondiale. E vi ritroviamo, contiguo a questo brulichio di personaggi elevati ad archetipi, un paesaggio inconfondibile, dove la cieca tensione alla sopravvivenza pervade un susseguirsi di boschi e borghi, piantagioni e viottole sterrate, terre dissodate e foreste popolate di cervi, luoghi incendiati da meriggi accecanti o sfiorati da interminabili crepuscoli in cui si condensa una disillusione immedicabile. Prigionieri di un determinismo da cui non riesce a liberarli l'effimera euforia dei balli, del whisky, del gioco d'azzardo, dei combattimenti di galli, tutti sembrano abitati da pensieri imperscrutabili. Eppure proprio in questo agitarsi impotente Faulkner trova il segreto "del cuore umano e dei suoi dilemmi": un segreto esteso a tutto il mondo animato e inanimato, se persino delle vecchie finestre sfondate ricordano "occhi colpiti da cateratte".
"Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall'oggi ma dall'età classica". Così William Faulkner spiegò il titolo del suo settimo romanzo, uscito nel 1932 e subito acclamato come uno dei suoi capolavori. Ed è tra i riverberi crudeli di quella luce implacabile che si consumano le vicende di una folta schiera di personaggi: una ragazza incinta, armata solo di "una riserva di paziente e tenace lealtà", che si avventura dall'Alabama al Mississippi alla ricerca del padre di suo figlio; un uomo solitario dallo strano nome, Joe Christmas, "con un'inclinazione arrogante e malevola sul viso immobile", che l'isteria razziale del Sud getta nell'abisso tormentoso del dubbio circa il proprio sangue; un reverendo presbiteriano ripudiato dalla sua Chiesa per l'antico scandalo della moglie adultera e suicida; e, circondati da neri invisibili, gli sceriffi, i taglialegna, i predicatori, le donne "dal volto di pietra", chi "definitivamente dannato", chi alla ricerca disperata di una chimerica catarsi.
Due storie narrate a capitoli alterni e che mai s'intersecano: quella dei due amanti che fuggono dalla società per chiudersi nel loro rapporto esclusivo e che nel tentativo d'interrompere una gravidanza finiscono con l'autodistruggersi; e quella del detenuto che durante la grande inondazione del Mississippi viene mandato in cerca di una partoriente aggrappata a un albero semisommerso, la trova, fa nascere il bambino, porta entrambi in salvo e poi, invece di darsi alla fuga, rientra nella monastica società del penitenziario. Estraneo a qualsiasi genere conosciuto, Le "Palme selvagge" non ha mai cessato di suscitare interrogativi. Si tratta di due racconti autonomi, intercalati per una qualche audace trovata? Di due racconti sotterraneamente legati? O di un romanzo, ancorché anomalo? Interrogativi ai quali ha fornito una risposta definitiva Kundera: "La "Sonata" opera 111 [di Beethoven] mi fa pensare a "Palme selvagge" di Faulkner, in cui si alternano un racconto d' amore e la storia di un evaso, due soggetti che non hanno nulla in comune, non un personaggio, e neanche una qualunque percettibile affinità di motivi o di temi: una composizione che non può servire da modello a nessun altro romanziere, che può esistere una volta e basta, che è arbitraria, non raccomandabile, ingiustificabile - ed è ingiustificabile perché dietro di essa si avverte un "es muß sein" che rende superflua ogni giustificazione".
Siamo a New Orleans – che qui si chiama New Valois, ma rimane perfettamente riconoscibile – a metà degli anni Trenta. Un cronista a caccia di storie vendibili arriva in un piccolo aeroporto, dove familiarizza con i protagonisti di un cupo ménage à trois: un pilota che si guadagna da vivere col volo acrobatico alle fiere dell’aria; sua moglie, molto androgina in tuta, molto meno senza; e l’amante, un paracadutista che potrebbe essere il vero padre del figlio che i due hanno avuto. E lo scoop non tarderà, perché gareggiando su un vecchio «monoguscio» – molto simile a quello che Faulkner stesso possedeva – il pilota troverà la morte nelle acque di un lago. Anziché il mélo che avrebbe potuto diventare – e che diventerà al cinema qualche anno dopo, nelle mani di un maestro del genere come Douglas Sirk –, Pilone si presenta come un romanzo fatto di molti romanzi. È infatti un reportage sul mondo degli aerei, che attraverso l’accumulo di dettagli anche tecnici approda a una stilizzazione quasi metafisica del volo; è un omaggio all’Eliot degli Uomini vuoti, perché ogni personaggio qui sembra un «cittadino del mondo delle ombre», sempre sul punto di cedere alla vertigine per l’alcol, il pericolo mortale, o il sesso; ed è, ancora una volta, una sgomenta interrogazione sul posto dell’uomo in una Natura smagliante e inesplicabile, che si estende dal «lieve, sibilante lamento delle conchiglie frantumate» fino a un cielo di «fitte, fioevoli stelle». È insomma Faulkner, o se si preferisce è la materia stessa di cui è intessuto il suo mondo.
Non sempre un'opera prima segna la nascita di uno scrittore. Ma se si tratta di William Faulkner, e se la materia del romanzo ha il sapore di un regolamento di conti, o di un risarcimento, il miracolo può avvenire. Quando "La paga dei soldati" esce per la prima volta, nel 1926, Faulkner ha trascorso gli otto anni dalla fine della Grande Guerra raccontando episodi del conflitto; e l'impressione che il lettore comune ricava dal libro è che il suo protagonista, il tenente Donald Mahon, sia un alter ego dell'autore. Così non è, dal momento che Faulkner, scartato dall'aviazione americana per un problema di centimetri e poi arruolatosi sotto falso nome in quella canadese, non aveva fatto in tempo a partire per l'Europa prima dell'armistizio: dunque non era stato, come Mahon, orribilmente ferito in combattimento, né aveva dovuto attraversare una tormentosa convalescenza affidandosi alle cure di tre donne la sensuale fidanzata Cecily, "insincera come un sonetto francese", la governante Emmy, sua amante anni prima per una sola notte, e la giovane vedova Margaret Powers. Il dolore e le passioni di Mahon - o di quanto resta di lui si trasformano così in quell'urlo che di Faulkner diverrà più tardi l'emblema: e in un magnifico furore che investe le passioni e le miserie di un intero microcosmo, su su fino alla "muta cacofonia dorata delle stelle".
"La struttura e lo stile di 'Mentre morivo' esercitano un fascino, a volte esasperante, soltanto se il lettore accetta la sfida di mettere in atto tutta la sua disponibilità percettiva. Bisogna cogliere insieme l'assurdo, il comico, il simbolico, l'inconcluso, la ridicolaggine che incombe sulla tragedia, l'enigma, che non si risolve" (Alfredo Giuliani).
Siamo tra Mississippi e Missouri, nel pieno della Grande Depressione e del proibizionismo. Una casa "buia, desolata e meditabonda" persa tra boschetti di cedri e prati inselvatichiti, nasconde una distilleria clandestina gestita da una banda di magnaccia e sbandati. Qui un pomeriggio, con un accompagnatore già ubriaco, irrompe come un'aliena Temple Drake, studentessa diciassettenne "non più proprio bambina, non ancora donna". "Dritta come una freccia nel vestitino succinto", il cappellino spinto all'indietro a sprigionare "quel che di licenzioso", Temple innescherà un tragico domino di perversione e di morte. Momento fatale sarà l'incontro tra i suoi occhi "tutti pupilla" e quelli, simili a "due grumi di gomma", del capobanda Popeye, dal volto perennemente contratto nella smorfia supplice di chi si accende una sigaretta dietro l'altra - un volto corrotto che porta incisa la perdita dell'innocenza di un intero Paese. Dopo aver freddato un suo scagnozzo e deflorato la ragazza tra le mura sventrate del fienile, Popeye riuscirà a segregarla in un bordello di Memphis e a far incolpare del delitto uno dei suoi uomini; ma un beffardo contrappasso si abbatterà su di lui, lasciando il lettore scosso e attonito perché "forse è nell'istante in cui ci rendiamo conto, in cui ammettiamo che nel male vi è un disegno logico, è allora che moriamo".
Il Gomito del Francese è un territorio venti miglia a sud-est di Jefferson, Missouri, spartito "in tanti piccoli poderi ipotecati e miserabili". "Dominus" del luogo è Will Varner, un latifondista-usuraio proprietario della scuola, della chiesa, dell'emporio e di una trentina di case. E sue emanazioni o ramificazioni sembrano tutti coloro che lo circondano: dal figlio Jody, florido tiroideo chiuso in un'"inviolabile aria di celibato", alla dionisiaca figlia Eula, che alla bellezza e all'eleganza unisce una "violenta e immune perversità", dai fittavoli al maestro di scuola. Ma l'equilibrio di questo microcosmo - fra semine e rimondature, battesimi e cantate - è nutrito dalla spietatezza di pulsioni elementari: sesso, denaro, aggressività.
Nel 1955 Faulkner fu preso da una furia memorabile in conseguenza della caccia che i giornali americani stavano dando a fatti della sua vita privata (e amorosa). Così, per questa unica occasione, Faulkner si lanciò in un pamphlet micidiale, che investe non solo la stampa americana e la macchina dei media, ma l'intero "sogno americano". Nella parola "privacy", infatti, come sappiamo oggi in maniera più chiara che mai, si addensano tutto il peggio e tutto il meglio della società democratica, e in particolare di quella che conserva il sigillo delle origini americane.
Il volume è una raccolta di racconti che, come i capitoli di un romanzo, compongono un'unica, grande storia: quella della conquista di una maturità che per il giovane Isaac McCaslin si compie quando uccide la prima preda, o forse nell'istante in cui la preda lo riconosce abbastanza uomo e accetta di farsi uccidere da lui. Perché la foresta di Faulkner è luogo fisico e proiezione metafisica, e l'uomo, attraverso il rituale della caccia, vi giunge a comprendere se stesso e la propria identità in rapporto agli altri e soprattutto rispetto alla natura. Una natura selvaggia e nobile, potente e senza tempo, il cui simbolo è il grande orso zoppo, Old Ben, inseguito e braccato da cani e cacciatori anno dopo anno.
Nel gennaio del 1937, recensendo "Assalonne, Assalonne!" Borges scriveva: "Conosco due tipi di scrittore: l'uomo la cui prima occupazione sono i procedimenti verbali, e l'uomo la cui prima preoccupazione sono le passioni e le fatiche dell'uomo. Di solito si denigra il primo tacciandolo di "bizantinismo" o lo si esalta defininendolo "artista puro". L'altro, più fortunato riceve gli epiteti elogiativi di "profondo", "umano", "profondamente umano" o il lusinghiero vituperio di "barbaro". Tra i grandi romanzieri Joseph Conrad è stato forse l'ultimo cui interessavano in egual misura le tecniche del romanzo e il carattere dei personaggi. A Faulkner piace esporre il romanzo attraverso i personaggi".
Un viaggio folle su un barroccio sgangherato, tra inondazioni e fienili in fiamme, sotto i cerchi sempre più fitti degli avvoltoi che accompagnano speranzosi il grottesco funerale di Addie Bundren. Attorno alla bara, spinti dai segreti più diversi, ingobbiti nei loro destini indicibili, il marito, la figlia e i quattro nipoti. Faulkner scrive questo suo quinto romanzo in sei settimane: è l'estate del 1929, ha trentadue anni, lavora di notte come operaio in una centrale elettrica e ha appena pubblicato "L'urlo e il furore". "Mentre morivo" ne rappresenta l'evoluzione tecnica, dove le voci monologanti si moltiplicano in una successione a spirale, fondendosi poi in una rara armonia di dissonanze.