La parola anima, nell'attraversare i più svariati sistemi di pensiero (filosofico, religioso, antropologico, psicologico), genera una serie di equivoci in cui si nascondono vertiginose variazioni di significato. Percorrendole è possibile scorgere gli spostamenti di volumi di senso e le migrazioni linguistiche da cui dipendono le epoche storiche e gli scenari da esse dischiusi. L'analisi di Galimberti muove da Platone, che gioca l'anima su un doppio registro, coniugandola da un lato con la costruzione della ragione e il governo di sé, dall'altro con l'abisso della follia e la dissoluzione dell'individuo. Da allora in poi, questi due registri non hanno cessato di condizionare la costruzione dei saperi, sempre insidiata sul piano teorico dalle oscillazioni delle opinioni e sul piano pratico dalla vertigine delle passioni, in quel gioco di maschere, assunte e dismesse dall'anima, a cui non sfugge che ogni nuova parola della ragione non è possibile se non liberando a ogni istante i frammenti di una segreta follia. Prima e dopo Nietzsche, Plotino e la Gnosi, Schopenhauer e il romanticismo, Freud e la psicoanalisi, Husserl e la fenomenologia, Heidegger e l'ermeneutica hanno tentato di liberare l'anima dal giogo dell'idea ma la loro opposizione al platonismo si è rivelata di segno uguale anche se contrario.
"Il messaggio che scaturisce dalle loro analisi contiene l'indicazione di un possibile futuro" "Sta forse giungendo a compimento il senso espresso dalla nostra cultura che, come dice il nome, è 'occidentale', cioè 'serale', avviata a un 'tramonto', a una 'fine'. L'evento occidentale è sempre stato presso la sua fine, ma solo ora comincia a prenderne coscienza. Ma che cosa finisce, oggi che l'Occidente è sulla via di occidentalizzare il mondo e, quindi, di annullare la propria specificità che l'ha reso finora riconoscibile? Finisce la fiducia che l'Occidente aveva riposto nel progressivo dominio da parte dell'uomo sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell'uomo, materiali della tecnica. Ma la tecnica non ha alcun fine da raggiungere né alcuno scopo da realizzare, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità, la tecnica 'funziona' secondo quelle procedure che, pur nel loro rigore e nella loro efficacia, si rivelano incapaci di promuovere un orizzonte di senso. E sulle ceneri della categoria del 'senso', che dell'Occidente è sempre stata l'idea guida, si affacciano le figure del nichilismo, le quali, nel proiettare le loro ombre sulla 'terra della sera', indicano, a ben guardare, la direzione del tramonto. Un tramonto già iscritto nell'alba di quel giorno in cui l'Occidente ha preso a interpretare se stesso come cultura del dominio dell'uomo sulle cose."
Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è diventata l'ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità che, misurandosi sui soli criteri della funzionalità e dell'efficienza, non esitano a subordinare le esigenze dell'uomo alle esigenze dell'apparato tecnico. Inconsapevoli, ci muoviamo ancora con i tratti tipici dell'uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona. E poiché il suo funzionamento diventa planetario, questo libro si propone di rivedere i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia, di cui si nutriva l'età umanistica e che ora, nell'età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi o rifondati alle radici.
Più di dieci anni fa nelle "Orme del sacro" Umberto Galimberti esplorava la religiosità in Occidente. Da allora la riflessione di Galimberti sul sacro e sulla sua crisi si è approfondita, mentre molte cose cambiavano nel panorama religioso e intellettuale. In questo libro, che riprende solo in alcune parti il testo precedente, Galimberti mira a definire compiutamente la sua visione del cristianesimo, a cui riconosce il merito di aver dato vita e forma all'Occidente, ma che a questo Occidente ha anche strappato il cuore autenticamente religioso. Il cristianesimo è per Galimberti la religione dal cielo vuoto, la religione che ha desacralizzato il sacro, perché ha assegnato tutto il bene a Dio e tutto il male a Satana. Ha preferito la razionalità della filosofia greca con cui ha costruito la sua teologia al comandamento dell'amore che è l'essenza del messaggio evangelico. Per contare ancora qualcosa nel nostro mondo dominato dalla tecnica, questo cristianesimo ormai del tutto esangue e desacralizzato si è ridotto a un'agenzia etica, che si pronuncia su aborto, fine vita, scuola pubblica e privata, e si è fatto "evento diurno, lasciando la notte indifferenziata del sacro alla solitudine dei singoli, (...) che oggi, senza protezione religiosa, devono vedersela da soli con l'abisso della propria follia, che il sacro sapeva rappresentare e la ritualità religiosa placare".
Umberto Galimberti prende le mosse dai vizi capitali: Accidia, Avarizia, Gola, Invidia, Ira, Lussuria, Superbia. Identificati come "abiti del male" da Aristotele, come "opposizione della volontà dell'uomo alla volontà divina" nel Medioevo, come espressione della tipologia umana nell'Età dei lumi, appaiono infine come manifestazione psicopatologica nel Novecento. "E così, fuoriescono dal mondo morale per fare il loro ingresso in quello patologico. Non più vizi, ma malattie dello spirito." Alla luce di questa sequenza storica, Galimberti "ambienta" i vizi nel panorama contemporaneo conflittualmente compresi fra la funzionalità (anche del male) propria dell'età della tecnica e l'urgenza dell'etica. Segue un'ampia ricognizione su quelle tendenze o modalità comportamentali per le quali suona efficace (e impropria) la definizione di "nuovi vizi": la sociopatia, la spudoratezza, il consumismo, il conformismo, la sessomania, il culto del vuoto, la voluttà dello shopping, la dipendenza dalla merce, la meccanicità del sesso hanno a che fare con il dissolvimento della personalità. Sono di fatto la negazione del modello "vizioso". Inquadrarli come vizi fa sì che si possa parlarne, onde "esserne almeno consapevoli e non scambiare per 'valori della modernità' quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti".
Umberto Galimberti è un pensatore di razza che sa fotografare l'esistente. Sembriamo tutti avvolti da un "ospite inquietante", perfino quando viaggiamo in treno per una gita o andiamo a trovare un amico. Ma chi ha inserito nel nostro scenario questo strano ospite? Chi è? Con questo nuovo volume della Collana "Diálogoi", il filosofo ci spiega perché i giovani oggi hanno paura. Ma ci suggerisce anche come essa si possa togliere.
Culto della giovinezza, idolatria dell'intelligenza, ossessione della crescita economica, tirannia della moda: sono alcuni dei miti di oggi che Umberto Galimberti passa in rassegna per smontarli e denunciarne la natura ingannevole, mostrando come i falsi miti siano in realtà "idee malate", non avvertite come tali, e quindi tanto più capaci di diffondere i loro effetti nefasti senza trovare la minima resistenza. Sono i miti del nostro tempo, le idee che più di altre ci pervadono e ci plasmano come individui e come società. Quelle che la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa propongono come valori e impongono come pratiche sociali, fornendo loro un linguaggio che le rende appetibili e desiderabili. I miti sono idee che ci possiedono e ci governano con mezzi non logici, ma psicologici, e quindi radicati nel profondo della nostra anima. Sono idee che abbiamo mitizzato perché non danno problemi, facilitano il giudizio, in una parola rassicurano. Eppure molte sofferenze, molti disturbi, molti malesseri nascono proprio dalle idee che, comodamente accovacciate nella pigrizia del nostro pensiero, non ci consentono più di comprendere il mondo in cui viviamo. Per recuperare la nostra presenza al mondo dobbiamo allora rivisitare i nostri miti, sia quelli individuali sia quelli collettivi, dobbiamo sottoporli al vaglio della critica perché i nostri problemi sono dentro la nostra vita, e la nostra vita vuole che si curino le idee con cui la interpretiamo.
Quando dico "ti amo" che cosa sto dicendo di preciso? E soprattutto, chi parla? Il mio desiderio, la mia idealizzazione, la mia dipendenza, il mio eccesso, la mia follia? Non c'è parola più equivoca di "amore" e più intrecciata a tutte quelle altre parole che, per la logica, sono la sua negazione. Tutti, chi più chi meno, abbiamo fatto esperienza che l'amore si nutre di novità, mistero e pericolo e ha come suoi nemici il tempo, la quotidianità e la familiarità. Nasce dall'idealizzazione della persona amata di cui ci innamoriamo per un incantesimo della fantasia, ma poi il tempo, che gioca a favore della realtà, produce il disincanto e tramuta l'amore in un affetto privo di passione o nell'amarezza della disillusione. Qui Freud ci pone una domanda: "Quanta felicità barattiamo in cambio della sicurezza?". Umberto Galimberti ci consegna un volume in cui l'acutezza del pensiero penetra i meandri del sentimento e del desiderio, registrando i mutamenti intervenuti nelle dinamiche dell'attrazione, nel patto con l'amato/a, nei percorsi del piacere (dall'onanismo alla perversione). Sullo sfondo si muove, come un fantasma, continuamente evocato e rimosso, quello che propriamente o impropriamente gli uomini non smettono di chiamare amore.
Organismo da sanare, forza lavoro da impiegare, carne da redimere, inconscio da liberare: nel corpo, nella repressione della sua naturale ambivalenza, è leggibile la storia culturale dell'Occidente. Un libro fondamentale, la proposta di una psicologia che, togliendo la scissione anima/corpo sui cui si fonda, cominci a pensarsi contro se stessa.
"Chi sono gli abitatori del tempo? Siamo noi, tutti noi: chi persuaso di potersi salvare dal nichilismo aggrappandosi (disperatamente o felicemente) a una fede che salva, chi invece persuaso che i Valori, gli Immutabili, sono destinati a non reggere perché deboli. Siamo tutti noi, figli della tecnica, figli a volte felici, e altre disperatamente alla ricerca del senso rubato, angosciati di fronte alla Gotterdammerung, alla caduta degli dei, o apparentemente acquietati nel paradiso occidentale. Noi, convinti che ormai solo un Dio ci può salvare".
Più di dieci anni fa nelle "Orme del sacro" Umberto Galimberti esplorava la religiosità in Occidente. Da allora la riflessione di Galimberti sul sacro e sulla sua crisi si è approfondita, mentre molte cose cambiavano nel panorama religioso e intellettuale, prima fra tutte l'elezione di Joseph Ratzinger a papa dopo la scomparsa di Giovanni Paolo II. In questo nuovo libro, che riprende solo in alcune parti il testo precedente, Galimberti mira a definire compiutamente la sua visione del cristianesimo, a cui riconosce il merito di aver dato vita e forma all'Occidente, ma che a questo Occidente ha anche strappato il cuore autenticamente religioso. Il cristianesimo è per Galimberti la religione dal cielo vuoto, la religione che ha desacralizzato il sacro, perché ha assegnato tutto il bene a Dio e tutto il male a Satana. Ha preferito la razionalità della filosofia greca con cui ha costruito la sua teologia al comandamento dell'amore che è l'essenza del messaggio evangelico. Per contare ancora qualcosa nel nostro mondo dominato dalla tecnica, questo cristianesimo ormai del tutto esangue e desacralizzato si è ridotto a un'agenzia etica, che si pronuncia su aborto, fine vita, scuola pubblica e privata, e si è fatto "evento diurno, lasciando la notte indifferenziata del sacro alla solitudine dei singoli, (...) che oggi, senza protezione religiosa, devono vedersela da soli con l'abisso della propria follia, che il sacro sapeva rappresentare e la ritualità religiosa placare".
Da una decina d'anni Umberto Galimberti tiene con regolarità una rubrica su "la Repubblica delle Donne", in cui risponde alle lettere che gli vengono inviate dai lettori e dalle lettrici. È una delle rubriche più lette e ha un seguito appassionato: non pochi conservano con cura i ritagli raccolti negli anni. Le risposte di Galimberti sono in effetti un esempio eminente del suo modo di intendere il lavoro del filosofo: sono risposte colte e profonde, ma sempre comprensibili e centrate. La parola di un filosofo che non ha paura di riflettere sul mondo contemporaneo, sugli eventi e sui disagi che tormentano gli uomini e le donne di oggi. "I miei commenti alle lettere qui riportate non vogliono essere un ricettario per i problemi della vita, perché questo comporterebbe che io capissi la mia e anche quella degli altri, mentre la bellezza della vita è proprio nella sua imperscrutabilità, è nel gioco indicato dai suoi enigmi che non si concedono a facili soluzioni." Umberto Galimberti